1992: la storia dell’indagine Mani Pulite diventa fiction

Quand’è che un Paese può dirsi maturo? Quando può definirsi civile, moderno e consapevole? Non è semplice trovare una risposta, ma forse possiamo ipotizzare che lo sia quando, guardandosi allo specchio, il Paese vede i suoi limiti, i vizi e le anomalie, ed è capace di prenderne atto.

L’Italia non è mai stato un Paese normale, è la storia a dircelo. Siamo stati tutto e il contrario di tutto: fascisti, monarchici, partigiani, democristiani, berlusconiani, adesso renziani. Diceva il Principe Fabrizio nel “Gattopardo”: Cambiare tutto per non cambiare nulla.

I media e gli opinionisti ci dicono che siamo entrati nella Terza Repubblica eppure, se accendiamo la tv e guardiamo un qualunque telegiornale della sera, sembra che tutto sia rimasto uguale al passato. Si parla ancora di corruzione e malaffare, di politici inadeguati e instabilità, di degrado morale e sociale. Le persone comuni, sempre più disgustate, pensano che solo una rivoluzione potrebbe ribaltare questo quadro deprimente.

Eppure noi una rivoluzione l’abbiamo già fatta – o forse sarebbe meglio dire l’abbiamo subita – nel 1992. Un anno che ha cambiato la nostra storia e ha segnato la fine di una epoca. Per alcuni si è trattato di un grande esempio di azione giudiziaria, per altri di una caccia alle streghe. La mia generazione ha vissuto quel periodo come fosse una fiction, incollata alla tv ad ascoltare i resoconti dal Tribunale di Milano che puntualmente ogni giorno emetteva avvisi di garanzia come fossero bollettini di guerra.

Pool Mani pulite
Il Pool “Mani Pulite”

Tutto è partito dal capoluogo lombardo, quella stessa città resa famosa nel 1849 per le sue epiche cinque giornate. Un gruppo di magistrati, che ben presto sarebbe stato ribattezzato il “Pool di Mani Pulite”, scardinò il sistema del pentapartito (Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli) che per cinquant’anni aveva governato l’Italia. Sembra preistoria, eppure è successo l’altro ieri.

Una rivoluzione che sa di fiction e che come tale andava raccontata al pubblico. Sky ha raccolto la sfida, portando sul piccolo schermo una nuova serie: 1992. Dopo i successi delle trasposizioni tv di Romanzo Criminale e Gomorra, che hanno dato nuovo lustro alla nostra televisione, e hanno contributo ad accrescere il fascino dei cattivi e della criminalità organizzata, ribaltando il normale punto di vista dello spettatore e aprendo una serie di interrogativi (è giusto, ad esempio, parteggiare per i criminali? A tanto può portare la finzione scenografica?) l’emittente privata ci riprova.

Una sfida gravosa e complicata, descrivere e mettere in scena il passato non tanto remoto senza cadere nel retorico e nel banale. Le attese erano enormi e dopo che la serie è stata accolta con favore della critica al Festival di Berlino di febbraio, ieri sono andate in onda le prime due puntate della serie, su Sky Atlantic. Il progetto è nato da un’idea di Stefano Accorsi e l’ambizione è quella di unire realtà e fiction per spiegare, soprattutto alle nuove generazioni, cosa è stato Tangentopoli.

Quali sono le mie prime reazioni a caldo? Un serie interessante, coraggiosa, ma che non ha sfondato come speravo. La delusione viene soprattutto dal fatto che 1992 appare un prodotto ben costruito, curato e studiato, ma senza anima. Ha un nome iconico, eppure, guardando le scene, non si percepisce l’atmosfera di quegli anni. Il muro di Berlino era caduto da poco, il comunismo era finito e con esso la guerra fredda. Il mondo stava cambiando. In quel clima gli ideali e soprattutto gli interessi che avevano tenuto in piedi la Prima Repubblica italiana vennero meno e i partiti che la rappresentavano si dimostrarono non all’altezza di capire e interpretare i bisogni degli italiani.

C’è crisi, oggi, ma c’era anche allora. E le persone si sentivano, se possibile, ancora più povere, quasi spaesate, dopo la sbornia di benessere degli anni 80. Tutti cercavano nuove certezze e nuovi punti di rifermento. Questo il background della serie. Eppure lo spettatore non si scalda vedendo in scena il periodo, non si sente davvero coinvolto, semmai dentro di se cova rabbia e amarezza nel constatare che le cose non sono molto cambiate, col passare degli anni. Della serie, impareremo mai dagli errori che abbiamo commesso?

Ogni svolta epocale ha la sua data simbolo – così la scoperta dell’America del 1492 segna l’inizio dell’età moderna, l’attentato del giugno 1914 quello della Prima guerra mondiale. Tangentopoli non si discosta dalla tradizione: fu l’arresto, nel febbraio 1992, dell’ingegnere Mario Chiesa, esponente del Psi milanese, colto in flagranza di corruzione, a segnare l’inizio della slavina. Bettino Craxi e i vertici del Partito socialista sottovalutarono la portata dell’episodio, definendo Chiesa “un mariuolo”. Ma ben presto dovettero realizzare che erano più di uno, i mariuoli. L’Italia trovò nuovi eroi, il sostituto Procuratore Antonio Di Pietro, ad esempio.

Miriam Leone e Stefano Accorsi
Miriam Leone e Stefano Accorsi

Lo spettatore rievoca qui momenti convulsi e delicati attraverso gli occhi di sei personaggi diversi e in apparenza lontani. Le loro vicende ben presto si intrecceranno, facendoci riflettere su come siano state anche le vite delle persone comuni, a essere condizionate da Tangentopoli.

Conosciamo così il pubblicitario Leonardo Notte (Accorsi), edonista e ambizioso, che punta a conquistare i vertici di PublItalia, il poliziotto Luca Pastore (Diele), malato di Hiv per colpa di una trasfusione con sangue infetto, e in cerca di vendetta contro l’imprenditore Mainaghi (Ragno), la figlia di quest’ultimo, Bibi (Tea Falco), giovane disincantata e in balia di se stessa. C’è poi la bella e spregiudicata Veronica Castello (Miriam Leone), determinata a diventare la nuova Lorella Cuccarini e pronta a tutto, anche a offrire senza pudori il proprio corpo al potente di turno.

Colpiscono la durezza e la voglia di emergere di Pietro Bosco (Caprino), ex militare nella Guerra del Golfo, che trova per caso nell’emergente Lega Nord l’opportunità di essere qualcuno che conta, diventando parlamentare, e il carisma di Antonio Di Pietro, interpretato da Antonio Gerardi, anche se rispetto a quello vero il personaggio risulta meno irruento e soprattutto usa la lingua italiana come fosse appena uscito dall’Accademia della Crusca. Interessante da seguire nel proseguo delle puntate anche la figura di Marcello Dell’Utri (Contri).

La regia è pulita, puntuale, ma almeno per adesso non ha lasciato particolari segni in quanto a creatività e innovazione. Il ritmo è fin troppo compassato e controllato, il pathos narrativo risulta così poco incisivo. Forse la serie, nel proseguo, comincerà a suonare il rock & roll, ma per adesso mi sembra più vicina al sound di Marco Masini..

Raccontare noi stessi, il passato prossimo, non è semplice, ci vuole coraggio e magari un pizzico di lucida follia. A Sky va dato comunque il merito di averci provato, come sempre prima degli altri.


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Vittorio De Agrò
È nato in Sicilia, ma vive a Roma dal 1989. È un proprietario terriero e d’immobili. Dopo aver ottenuto la maturità classica nel 1995, ha gestito i beni e l’azienda agrumicola di famiglia fino al dicembre 2012. Nel Gennaio 2013 ha aperto il suo blog, che è stato letto da 15.000 persone e visitato da 92 paesi nei 5 continenti. “Essere Melvin” è il suo primo romanzo.

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