“7 sconosciuti a El Royale”: un puzzle da ricomporre pezzo dopo pezzo

Drew Goddard si ispira ad Agatha Christie, a Tarantino e ai Coen per il suo caleidoscopio su pellicola

Un film di Drew Goddard. Con Jeff Bridges, Cynthia Erivo, Dakota Johnson, Jon Hamm, Cailee Spaeny, Lewis Pullman. Thriller, 141′. USA 2018

Anni Sessanta. Un uomo affitta una stanza all’hotel El Royale nascondendo una borsa voluminosa sotto le assi del pavimento. Poco dopo viene ucciso da un altro uomo, la cui identità rimane misteriosa. Dieci anni dopo alcuni clienti decidono di soggiornare nello stesso albergo, che si trova all’esatto confine fra la California e il Nevada, al punto che una striscia rossa divide fisicamente a metà gli spazi: da un lato le camere in Nevada – lo stato del vizio, dell’illegalità e del gioco d’azzardo – dall’altro quelle in California – lo stato dell’amore libero, della contestazione e di Hollywood. Uno dopo l’altro i personaggi riveleranno la loro vera natura.

 

Sette estranei, ognuno con un segreto da nascondere, si incontrano all’El Royale di Lake Tahoe, un hotel fatiscente con un passato oscuro. Presto, ognuno dei è costretto a svelare le carte e ad affrontare i propri demoni.

Dodici ore, una notte, un solo luogo. L’evoluzione coerente dei personaggi in un arco di tempo così breve è segno di una sceneggiatura riuscita, ambito in cui il regista Drew Goddard è esperto, dopo aver scritto gli episodi di “Buffy – L’ammazzavampiri”, “Lost” e recentemente “Daredevil”. La sensazione di farsi condurre per mano da un personaggio, poi da un altro, poi da un altro ancora, scoprendo le storie dei tutti pian piano, è inebriante.

Difficile non pensare a un’influenza del Tarantino di “The Hateful Eight”, del classico del mistery “Dieci piccoli indiani” e del suo liberissimo adattamento del 2013 “Identità” con John Cusack. Ma in “7 sconosciuti a El Royale” c’è anche qualcosa dei fratelli Coen, e poi ironia, cinismo e situazioni grottesche che nascondono una critica ben costruita, ridondante il giusto per imporsi sulle trame singole.

Con un cast di attori famosi, la recitazione è solida dall’inizio alla fine, ma è Lewis Pullman (Miles, l’albergatore) a rubare la scena anche a divi come Chris Hemsworth.

La struttura del film – dove il montaggio la fa da padrone, regalando gioie visive e sonore – è fresca e ben calibrata, anche se a volte il ritmo tende a trascinarsi, rallentando. Le scene più energiche sono accompagnate da un’incredibile colonna sonora, con classici degli anni ’60 che creano un’atmosfera calda e ponderata.

Freddi, crudi ed estremamente attuali, i temi toccati dalla storia. Machismo tossico, corruzione, dannazione, guerra, morte, violenza, sette e culti, predominio sui più deboli. Ma, come risvolto della medaglia, c’è spazio anche per speranza, redenzione e bontà d’animo.

Il film è stato girato in pellicola, scelta giustificata dallo stesso Goddard nella conferenza stampa di presentazione alla Festa del cinema di Roma come volontà di abbracciare un ricordo. Il ricordo della pellicola, di quelle sensazioni che il digitale non può restituire. Un’emozione intensa che porta a valutare genuinamente e con trasporto chi lavora per lui e sul set di “7 sconosciuti a El Royale”.

 

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