“A quiet passion”: il regista Terence Davies presenta il film a Roma

Il biopic con Cynthia Nixon tratteggia un ritratto intimo della poetessa americana Emily Dickinson

Dopo due anni dalla presentazione al Festival di Berlino e a quello di Torino, arriva nelle sale italiane “A quiet passion” (qui la recensione), il biopic con Cynthia Nixon che racconta la vita della poetessa statunitense Emily Dickinson.

Abbiamo incontrato il regista Terence Davies, a Roma per presentare il suo film.

Davies ha parlato per prima cosa del suo rapporto con il personaggio, da cui è rimasto come folgorato da giovane.

“Ho scoperto Emily Dickinson a 18 anni. Ho visto un documentario su di lei, Claire Bloom leggeva Because I cannot stop for Death e per me è stata una folgorazione. Qualche anno dopo sono tornato alla sua opera, e ho capito cosa mi ero perso da giovanissimo: era un’immensa e grandissima poetessa”.

A prestare il volto alla Emily Dickinson di Davies, l’attrice Cynthia Nixon che in molti ricorderanno per il ruolo di Miranda in “Sex & The City”.

“Non l’avevo mai visto, ho guardato solo un episodio con il volume basso e lei mi ha chiesto perché l’avessi fatto. I suoi controcampi erano i più veri, non stava recitando. In generale disapprovo quella serie TV: sembra che tutto quello che devi fare nella vita sia mangiare cioccolato e fare sesso. Ovviamente lo dico in parte per invidia”.

Nel film l’atmosfera dell’epoca risulta molto ben restituita, merito anche di una messa in scena attenta ai dettagli, e per certi versi lenta.

“Io faccio i film come li vedo e sento, non credo nel montaggio veloce che per me è come il fast food, è falso e altera la percezione senza lasciare nulla. Quindi sì, il mio è un cinema lento ma se ti soffermi e rispondi a questa lentezza puoi cogliere l’attimo fuggente. In ogni film mi piace catturare il ricordo, la memoria, il tempo e questo lo faccio con un taglio specifico o una carrellata lenta o una dissolvenza. A me interessa catturare i momenti, gli istanti.”

Emily Dickinson raggiunse la fama solo dopo la morte, eppure la poetessa può essere considerata un’avanguardista oltre che una femminista.

“Era all’avanguardia per i suoi tempi, e come molti artisti, non ha avuto fortuna. Ma quello che più mi premeva raccontare era la sua spiritualità. Emily Dickinson ha difeso l’integrità del suo animo e ha cercato di vivere sempre coerentemente con se stessa. E questo dovrebbero farlo tutti, sempre. La questione dello spirito e dell’integrità morale mi è molto cara. Io sono nato a Liverpool in un momento in cui molti irlandesi si trasferivano in città portando la religione cattolica. Io non credo nell’aldilà, non sono cattolico ma penso sempre all’anima, ogni giorno mi faccio un esame di coscienza, e sento sempre un grande vuoto. Come riempirlo? Non so, so solo che voglio essere cremato, e magari mandare le mie ceneri nello spazio, ma essendo inglese probabilmente ricadranno in Inghilterra”.

Questioni etico-religiose a parte, non è un’esagerazione dire che il personaggio di Emily Dickinson è molto vicino al regista, anche dal punto di vista biografico.

“Sono il più giovane di dieci figli di una famiglia proletaria di Liverpool e quando ho capito di essere gay in Gran Bretagna l’omosessualità era ancora reato. Ho pregato per essere normale, ho pregato fino a farmi sanguinare le ginocchia. Non ho mai trovato conforto. Io non sono uno che partecipa, sono più uno che osserva, e questo sicuramente mi accomuna a Emily”.

Un personaggio complesso, legato morbosamente alla sua famiglia, conformista e anticonformista allo stesso tempo.

“Ho sognato che la mia famiglia potesse assomigliare a quella di Emily perché era la mia famiglia e l’amavo. Inizialmente la pensa anche lei così, ma poi invecchi, ti sposi, e la vita cambia. Emily non è simbolo di rassegnazione, ma di accettazione serena del proprio destino. Lei accetta il fatto di essere stata ignorata dal mondo, ma chiede a quello stesso mondo di essere perdonata”.

 

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