Aristotele e il giavellotto fatale, Margaret Doody

Questo secondo “Aristotele detective” si svolge dentro una palestra dell’antica Atene, dove un ragazzo è stato ucciso da un giavellotto. Quello che sembra un incidente con un colpevole scontato si dimostra nascondere, invce, altro. Aristotele svela il mistero grazie alla sua logica deduttiva e lo spiega applicando all’accaduto la sua fisica dei luoghi naturali.

 

Il primo libro della serie di gialli, chiamiamoli storici, di Margaret Doody (Aristotele detective, ndr) mi era piaciuto, nonostante qualche lungaggine di troppo, quindi ho voluto fortemente proseguire la lettura con il secondo capitolo.

Questo libro, rispetto all’altro, ha il problema opposto: è davvero troppo, troppo breve. Definirlo libro, addirittura, mi sembra eccessivo. Queste 40 pagine scarse sono un racconto, finito e chiuso in sé – perché c’è il delitto, l’analisi e l’individuazione del colpevole – ma pur sempre un racconto.

A differenza del primo libro, qui manca del tutto la parte dell’ambientazione della storia. Non viene sprecata una sola parola per dire dove siamo e quando, né tanto meno per definire o descrivere i personaggi. Se non avessi letto Aristotele detective starei ancora cercando di capire chi è Stefanos e cosa c’entra con il noto filosofo, tanto per cominciare.

La scelta di riunire le prime tre indagini dello Stagirita in un unico libro, insomma, mi sembra, più che giusta, necessaria. Preso a sé stante questo caso non dice assolutamente niente, ed è un peccato.

Caso forse più unico che raro, introduzione e postfazione occupano nel libro quasi lo stesso spazio della storia vera e propria, e vista anche la brevità di quest’ultima (fatto ancora più unico) li ho letti entrambi. Il parallelismo tra l’Aristotele detective immaginato dalla Doody e il più famoso detective di sempre trovo che possa starci. In comune i due hanno soprattutto il fatto di muoversi per intuizioni e verifiche spesso solitarie, di non rendere sempre partecipi i rispettivi assistenti delle loro scoperte.

Anche il saggio finale che traccia una specie di ritratto della scrittrice – poco interessata alle luci della ribalta e alla fama, quasi un’ombra che appare e scompare – offre informazioni interessanti. Insomma, se il romanzo è proprio ridotto, almeno queste appendici dicono al lettore qualcosa di nuovo.


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