Aspettando il Festival di Cannes: di riflessioni, speranze e… tamponi

Dal 6 al 17 luglio si torna sulla Croisette, con qualche perplessità e tanta voglia di cinema

Dove eravamo rimasti? Ah sì, ricordo… Stavo mangiando una gustosa pizza margherita dopo l’ultima conferenza stampa e tra un boccone e l’altro scrivevo la Cartolina conclusiva da Cannes 2019, gioendo di essere sopravvissuto alle fatiche festivaliere ancora una volta.

Chiudevo il pezzo (qui lo trovate nella sua interezza) con la promessa che fin dal giorno dopo avrei iniziato il mio consueto “corteggiamento giornalistico” alla collega Valeria Lotti, per convincerla a presenziare con me all’edizione 2020.

Tutto potevo immaginare tranne che una “banale influenza”, in un solo colpo, avrebbe dato all’amica Lotti “la scusa perfetta” per silenziarmi e declinare l’invito e a Thierry Frémaux l’incubo degli incubi di ogni direttore artistico: Adieu, Cannes 2020.

Il buon Thierry, va detto, ha cercato di resistere, immaginando rinvii, edizioni ridotte, versione autunnali, ma alla fine si è dovuto arrendere all’evidenza pandemica: Cannes 2020 non s’aveva da fare, né domani né mai. Niente red carpet, code, feste, nani e ballerine: per un anno la Croisette è stata presa d’assalto, letteralmente, dai maiali selvatici.

Il 2021, iniziato sotto i migliori auspici con l’annuncio dei primi vaccini, si stava trasformando in un drammatico bis quando l’intera Europa è stata colpita dalla seconda (o era terza ?) ondata di Covid19. Stavolta, memori degli errori del passato, dalla cabina di regia del Festival hanno visto bene di anticipare i tempi, annunciando già a marzo che Cannes 2021 si sarebbe tenuto, sì, ma non nel periodo classico.

Da “un’estate al mare” a “un’estate al festival”, il passo è stato breve. La mia prima reazione leggendo le nuove date (6-17 luglio, ndr) è stata: un’insolazione micidiale non me la toglie nessuno, viste le lunghe ed estenuanti code che mi aspettano. Poi ho segretamente sperato (ma non ditelo alla direttora!) che Frémaux potesse emulare il modello sanitario e organizzativo di Venezia 2020, riducendo la partecipazione degli inviati. 

Ma ancora una volta non avevo fatto i conti con la grandeur francese e soprattutto con l’avversione degli organizzatori di unire nella stessa frase “basso profilo” e “Festival di Cannes”. Così, due mesi fa, una raggiante direttora condivideva la “lieta novella” dell’accredito a dispetto di ogni pronostico. Vi lascio immaginare la mia gioia.

Comunque, passata l’euforia, ho iniziato a informarmi per capire come sarebbe stato il Festival dal punto di vista organizzativo. I rumors si sono susseguiti a ritmo frenetico nelle ultime settimane, e tra gli addetti ai lavori giravano le teorie più disparate. Alla fine, la verità si è rivelata paradossalmente quasi più incredibile e sconvolgente.

Dal 30 giugno la Francia ha decretato la fine del coprifuoco, la necessità di un solo tampone antigienico per entrare sul territorio nazionale e l’abolizione del distanziamento per ciò che riguarda gli eventi al chiuso. Musica per le orecchie di Frémaux, che nella conferenza stampa del 3 giugno ha potuto annunciare: “Cannes è tornato. Sarà una grande edizione, più ricca di film, eventi e ospiti, tenendo conto che la pandemia non è ancora finita”. Cosa vuol dire, in concreto, per un inviato che ha all’attivo soltanto una dose di vaccino? La necessità di sottoporsi alla “giostra dei tamponi”, ogni 48 ore. 

Quello brevettato da Venezia 2020 – rigoroso distanziamento, prenotazione on-line dei posti, drastica riduzione degli stessi – poteva essere un valido modello da seguire. In Francia hanno invece deciso di scommettere tutto sui vaccini e sulla capacità dei laboratori del Festival di processare ogni giorno migliaia di tamponi. Una scelta rischiosa, per come la vedo io, ma come sempre sarà il campo – o in questo caso la resistenza del mio naso – a dare il responso definitivo.

Una scena del nuovo film di Nanni Moretti, “Tre piani”.

Il mio sarebbe dovuto essere un primo pezzo di colore, alla luce anche della presentazione dei programmi di Settimana della critica e Quinzaine. A naso ancora integro posso dire che la rappresentanza italiana, per quanto numericamente ridotta, è di tutto rispetto sul piano qualitativo. Oltre a “Tre piani” di Nanni Moretti nel concorso ufficiale, ci sono “Corpo piccolo” di Laura Samani (Settimana della Critica), “Futura” di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, “A Chiara” di Jonas Carpignano e “Re Granchio” di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis (Quinzaine)

Come sarà davvero Cannes 2021, dal punto di vista artistico ma anche organizzativo e sanitario – purtroppo, in questo periodo storico, è molto difficile se non impossibile concentrarsi solo sulla prima componente? Quali saranno le sorprese? Quali i flop? Attendiamo il 7 luglio per scoprirlo e scriverne, tamponi permettendo…

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Vittorio De Agrò
È nato in Sicilia, ma vive a Roma dal 1989. È un proprietario terriero e d’immobili. Dopo aver ottenuto la maturità classica nel 1995, ha gestito i beni e l’azienda agrumicola di famiglia fino al dicembre 2012. Nel Gennaio 2013 ha aperto il suo blog, che è stato letto da 15.000 persone e visitato da 92 paesi nei 5 continenti. “Essere Melvin” è il suo primo romanzo.

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