“Black phone”: un horror ricco di pathos, con un ottimo cast

Ethan Hawke si conferma talentuoso e versatile nel film di Scott Derrickson

Un film di Scott Derrickson. Con Mason Thames, Madeleine McGraw, Jeremy Davies, James Ransone, Ethan Hawke. Horror, 102′. USA 2021

North Denver, 1978. Finney è un ragazzino che pensa al baseball e alle cose tipiche dei ragazzini della sua età, ma deve affrontare una bella quota di difficoltà a partire dai classici bulli della scuola che lo prendono di mira per arrivare a un padre alcolizzato, autoritario e ben poco supportivo nei confronti suoi e della sorella Gwen, che ha degli strani sogni, delle visioni che a volte misteriosamente si realizzano. Anche sua mamma, morta suicida, aveva delle visioni e il babbo cerca di impedire a Gwen di seguire lo stesso percorso. Un serial killer pedofilo, denominato il Rapace, sta mietendo vittime nella zona e diversi ragazzini sono già scomparsi. Anche Finney viene rapito e si ritrova prigioniero in uno scantinato dove c’è un vecchio telefono nero a muro. È scollegato, ma comincia a squillare, mettendo Finney in contatto con gli spiriti dei ragazzini precedentemente uccisi dal killer, desiderosi di aiutarlo.

 

La scuola è un momento cruciale per lo sviluppo di ogni ragazzo, siamo tutti d’accordo, ma può trasformarsi in un vero inferno per le vittime di bullismo. Oggi fenomeno discusso e analizzato, in passato veniva considerato come un normale scotto da pagare per gli studenti.

Ed è su questo punto che spinge pesantemente “Black phone” di Scott Derrickson, adattamento di un racconto di Joe Hill (figlio dell’incontrastato re dell’horror letterario Stephen King), ambientando l’azione negli Stati Uniti degli anni ‘70 ed evidenziando come la violenza giovanile e la legge del più forte siano stati segni distintivi di quel periodo.

Partendo da questo contesto sociale e culturale, il regista insieme all’altro sceneggiatore C. Robert Cargill ha poi ampliato il concetto di brutalità e follia, scrivendo la storia di un rapitore di ragazzi chiamato il Rapace (Hawke). Sono scomparsi in cinque, da North Denver, e la polizia ancora brancola nel buio più totale.

Il film porta il pubblico indietro nel tempo, facendo rivivere gli anni del liceo dalla prospettiva di un looser, il timido Finney (Thames). Il ragazzo sembra la preda perfetta per i coetanei bulli e per il Rapace, ma si rivelerà più scaltro del previsto.

In suo aiuto (ed ecco l’elemento soprannaturale), il Black Phone del titolo, un telefono formalmente inattivo nello scantinato ma in realtà animato dalle voci delle vittime del killer, desiderose di vendetta.

L’aiuto delle anime sospese o brutalmente uccise non è una novità del genere horror-sovrannaturale, ma gli autori qui sono stati efficaci a inserirlo come elemento decisivo non soltanto per la liberazione del protagonista ma anche per il suo passaggio all’età adulta

“Black Phone”, infatti, non è solo un horror ma anche una sorta di coming of age cruento e spietato in cui vittime e bulli si uniscono per sconfiggere questo “cattivo” più grande.

Ethan Hawke conferma il proprio talento, personalità e versatilità, indossando i panni del Rapace in modo assolutamente credibile e alternando con successo momenti di follia ad altri in cui appare impacciato e perso. L’attore americano si sta specializzando con successo in questi ruoli “estremi” – come abbiamo visto di recente in “The Northman” di Robert Eggers e nella serie Marvel “The Moon Knight”.

Hawke è un’ottima spalla per il vero protagonista del film, il giovane e talentuoso Mason Thames. Al personaggio di Gwen (Madeleine McGraw), invece, è affidato il tema della preveggenza, che risulta poco coerente con tutto il resto. Sarebbe stata necessaria una maggiore cura e un maggior approfondimento – forse in un progetto futuro?

Diceva una celebre réclame Telecom con Massimo Lopez che una telefonata allunga la vita. Dopo aver visto “Black Phone” possiamo aggiungere che, oltre a quello, una telefonata può anche aiutare a fare giustizia…

 

Il biglietto da acquistare per “Black Phone” è:
Nemmeno regalato. Omaggio. Di pomeriggio. Ridotto. Sempre.

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Vittorio De Agrò
È nato in Sicilia, ma vive a Roma dal 1989. È un proprietario terriero e d’immobili. Dopo aver ottenuto la maturità classica nel 1995, ha gestito i beni e l’azienda agrumicola di famiglia fino al dicembre 2012. Nel Gennaio 2013 ha aperto il suo blog, che è stato letto da 15.000 persone e visitato da 92 paesi nei 5 continenti. “Essere Melvin” è il suo primo romanzo.

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