“Cuernavaca”: l’epopea di un bambino costretto a crescere prima del tempo

Una pellicola di non facile lettura, dove ha grande spazio l'elemento naturale e la metafora onirica

di Luciaconcetta Vincelli

 

Un film di Alejandro Andrade. Con Carmen Maura, Emilio Puente, Moisés Arizmendi, Mariana Gaja, Diego Álvarez García. Drammatico, 90’. Messico, 2017

Un bambino perde tragicamente sua madre e con lei la sua vita di sempre. Si trasferisce dal Canada al Messico, più precisamente a Cuernavaca, nella casa della nonna paterna. Il padre di Andy è un ex carcerato, la nonna ha un carattere poco sostenibile e notevoli problemi di alcolismo, gli unici amici che riesce a farsi sono una banda di criminali e una ragazza affetta dalla sindrome di down dolcissima. Nel frattempo Andy dovrà capire come crescere e soprattutto con chi, e dovrà farlo in fretta perché i giorni passano e il dolore non accenna a diminuire.

 

La sala Petrassi dell’Auditorium parco della musica risuona di commenti contrastanti, molti di delusione, quando torna la luce dopo la proiezione di “Cuernavaca”, primo lungometraggio del regista messicano Alejandro Andrade.

Forse è difficile comprendere quest’opera, ma la sua profondità può nascondere dettagli molto interessanti quanto delicati. La storia si situa al limite della disperazione, il che potrebbe annoiare: con silenziosa angoscia Andy, un bambino che “vorrebbe ma non riesce a piangere”, si ritrova da solo, senza una vera famiglia, a crescere velocemente, a diventare adulto senza un adeguato passaggio di transizione, in un contesto subdolamente violento.

È il tema della maturazione, che il regista analizza ricorrendo a metafore organiche e ricordi d’infanzia fortemente legati a un’ambientazione “naturale”: la pellicola si apre, prosegue e si chiude su passaggi coloristici tra le stagioni, tra i tempi (fioritura, maturazione e raccolta) delle guavas, tra i frutti elaborati dall’uomo. Finalmente una ricerca visiva attenta, una fotografia approfondita, tra i film della Festa del Cinema.

Il tema continua poi a essere declinato attraverso i giochi d’infanzia, i costumi, sotterrati per sempre, non più adatti per chi promette “ce la farò da solo, mamma”. Da lì, dallo stesso terreno, sbucano insetti, formiche veloci e apparentemente innocue che, come negli incubi, sono pronte a ricoprire e soffocare gli aspetti più cari della vita di Andy.

Perché è con violenza che si sviluppa il tema: con colpi di scena aberranti e come triste commento al contesto sociale in cui il bambino è costretto. Tuttavia, la violenza non appare sin da subito nella sua completa entità dannosa per la crescita di Andy.

Andrade, il regista del documentario “Madrid: la sombra de un sueño” e del cortometraggio “Juego de manos”, sceglie una narrazione soggettiva per la delicatezza della storia: semplicemente ciò che vive il protagonista, dal suo punto di vista ingenuo, proiettato verso il mondo adulto.

Il resto, il contesto, appare distorto, probabilmente per una precisa scelta del regista: la “mezcla” del cast. In effetti, ha confermato, la varietà tra gli interpreti “è una delle scommesse principali del film. Due mondi si confrontano e vivono uno di fronte all’altro, senza mai comprendersi. Quello popolare è interpretato da non attori, quello borghese da attori”.

Ed è qui che entra in gioco un’impeccabile Carmen Maura, musa del regista Almodóvar (“Donne sull’orlo di una crisi di nervi”), per un personaggio ambiguo, in bilico tra durezza d’adulto e mancanza d’affetto. Il tema si ripropone, allora, in un circolo vizioso in cui si confondono i ruoli nei rapporti familiari, nei rapporti d’amore e di vita.

Ma forse, alla fine, “todo estará bien”. Andrà tutto bene.

 

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