“Dogman”: Marcello Fonte strepitoso nel noir di Matteo Garrone

Dalla storia vera del canaro di Roma, un film che riesce a non essere troppo - inutilmente - violento

Un film di Matteo Garrone. Con Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi, Francesco Acquaroli. Drammatico, 120′. Italia, 2018

Marcello ha due grandi amori: la figlia Alida, e i cani che accudisce con la dolcezza di uomo mite e gentile. Il suo negozio di toelettatura, Dogman, è incistato fra un “compro oro” e la sala biliardo-videoteca di un quartiere periferico a bordo del mare, di quelli che esibiscono più apertamente il degrado italiano degli ultimi decenni. L’uomo-simbolo di quel degrado è un bullo locale, l’ex pugile Simone, che intimidisce, taglieggia e umilia i negozianti del quartiere. Con Marcello, Simone ha un rapporto simbiotico come quello dello squalo con il pesce pilota.

 

Ispirato a un caso di cronaca nera avvenuto a Roma negli anni ’80 – il delitto compiuto da Pietro De Negri, detto er canaro che, dopo efferate torture, uccise il criminale e pugile dilettante Giancarlo Ricci – “Dogman” di Matteo Garrone racconta in realtà la storia da una prospettiva nuova, quasi intimista.

In una periferia sospesa tra metropoli e natura selvaggia, dove l’unica legge sembra essere quella del più forte, Marcello (Fonte) è un uomo mite e tranquillo, gestore un salone di toelettatura per cani. Durante le sue giornate deve destreggiarsi tra il lavoro, la figlia adorata, Alida, e l’ambiguo rapporto di sudditanza con Simoncino (Pesce), un ex pugile da poco uscito di prigione, temuto da tutti per i suoi atteggiamenti al limite della follia. Dopo l’ennesima sopraffazione, deciso a riaffermare la propria dignità, Marcello immaginerà una vendetta dall’esito inaspettato.

Variazione sul tema della lotta tra il più debole e il più forte, “Dogman” è la storia di una vittima che tenta di riprendere in mano il suo destino dopo anni di assoggettamento. Ma non solo. Mentre la narrazione avanza, infatti, il film si trasforma in un racconto più risonante e universale, di sofferenza e sogni perduti, delle scelte che compiamo quotidianamente per sopravvivere, del confine sottile tra chi siamo e chi pensiamo di essere.

Girato con un mix di primi piani intervallati da poche ma ampie panoramiche che danno respiro – tra cui un paio di sequenze subacquee da sogno, quando Marcello e Alida fanno immersioni -, Garrone sembra lentamente e inesorabilmente chiudere le pareti attorno al suo eroe, e attorno al suo pubblico (gabbie di un tipo o dell’altro appaiono in lontananza, non solo all’interno dell’emporio canino di Marcello).

Una scena del nuovo film di Matteo Garrone, “Dogman”.

La rigidità dello stile del regista crea un effetto che sminuisce Marcello dall’inizio alla fine. Sentiamo la sua impotenza ogni volta che la telecamera rifiuta di muoversi per lui, proprio come sentiamo la sua insignificanza ogni volta che qualcosa lo colpisce, illuminato da piccoli coni di luce, un’anima innocente in una città di teppisti egoisti.

Pellicola evocativa e toccante, “Dogman” colpisce perché nonostante sia un film intensamente violento trasmette pathos e uno strano senso di speranza.

Lo sguardo semplice e antico, Marcello Fonte incarna alla perfezione il tipo di umanità che Garrone voleva raccontare. Quella che, nel tentativo di riscattarsi dopo una vita di umiliazioni, si illude di aver liberato non solo se stessa, ma il mondo che la circonda. Nel farlo, però, si è persa.

 

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