“Grand Budapest Hotel”: una riflessione irreale sull’arte di narrare

Il film di Wes Anderson è una scatola cinese cinematografica, che punta su sceneggiatura e dialoghi

Un film di Wes Anderson. Con Ralph Fiennes, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Adrien Brody, Willem Dafoe. Commedia, 100′. USA, 2014

Monsieur Gustave è il concierge ma di fatto il direttore del Grand Budapest Hotel collocato nell’immaginaria Zubrowka. Gode soprattutto della confidenza (e anche di qualcosa di più) delle signore attempate. Una di queste, Madame D., gli affida un prezioso quadro. In seguito alla sua morte il figlio Dimitri accusa M. Gustave di averla assassinata. L’uomo finisce in prigione. La stretta complicità che lo lega al suo giovanissimo neoassunto portiere immigrato Zero gli sarà di grande aiuto.

 

Unico nel suo genere – e probabilmente unico in generale. Una regia visionaria nel prendere il cinema del passato come modello, quella di Wes Anderson. Perché “Grand Budapest Hotel” fa pensare alle pellicole “piatte” quanto a prospettiva e tridimensionalità degli inizi del 1900.

C’è qualcosa di profondamente retrò nella regia di questo film, nel modo in cui viene raccontata la storia. Qualcosa di retrò nelle inquadrature, nella staticità delle scene. Abituati come siamo ai mille effetti speciali, alle scene concitate che tutto devono ai colori e alla densità, è sconcertante vedere una trama che si dispiega al meglio grazie a pochi elementi abilmente scelti.

In certi casi la pellicola fa pensare anche ai vecchi film muti (pensiamo soltanto alla scena di fuga dalla prigione, o all’inseguimento in montagna). Ma è solo l’impostazione dell’immagine e delle scene, attenzione, perché qui i dialoghi rappresentano un elemento fondamentale. Insieme alla sceneggiatura. Ed è da questa che voglio partire.

Una storia a incastro, una sorta di scatola cinese del grande schermo, costruita attraverso una serie di analessi (riavvolgimenti su se stessa della trama, con il racconto di avvenimenti che precedono il punto raggiunto dalla storia, ndr) che ci portano via via a vivere momenti differenti.

Ai giorni nostri, una ragazza deposita una chiave sul monumento all’autore del celebre romanzo “Grand Budapest Hotel”. Un documentario degli anni ’80 ci mostra lo scrittore intento a raccontare la genesi del suo libro. Nel 1968 lo scrittore in questione si trova al’Hotel, un tempo un’istituzione, ormai decaduto, dove conosce l’anziano proprietario, Zero Moustafa, che gli racconta la sua esperienza di facchino prima di diventarne proprietario.

Nel 1932 il Grand Budapest è nel pieno del suo splendore, gestito dal concierge Monsieur Gustave H. – uomo di mezza età eccentrico, orgoglioso, raffinato e amante delle poesie, che intrattiene una moltitudine di relazioni con varie clienti (tutte molto più vecchie di lui) – che si trova a vivere una serie di avventure in compagnia del giovane lobby boy, Zero Moustafa. I piani si intrecciano e si intersecano, fino al finale dove chiudiamo le finestre temporali che abbiamo aperto via via e torniamo all’oggi.

I dialoghi e le caratterizzazioni dei personaggi sono sopraffine. C’è una vena neppure troppo celata di ironia e di parossismo in ognuna delle figure che compaiono sulla scena – dai protagonisti indiscussi, Monsier Gustave e Zero, alla bella Agatha, dai compagni di cella alle tardone amanti del concierge.

A primo impatto si potrebbe essere tentati di pensare che quella che abbiamo davanti è soltanto un’opera buffa, in realtà il fatto più sconcertante – e più bello – del film è che così non è. Tutt’altro. Dagli assassini che avvengono negli anni ’30 ai finali delle storie, niente è troppo bello per essere vero. Tutto è realistico, duro, triste. È come deve essere.

 

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