“Il diner nel deserto”: recensione del romanzo di James Anderson

Il primo capitolo della Serie del deserto, edita da NN Editore, è un racconto lirico, vivido e realista

Se c’è una caratteristica che amo in modo particolare dei libri pubblicati dalla NN Editore, una caratteristica che ho sempre ritrovato, in queste storie, è la loro capacità di rendere al meglio l’ambientazione, di far respirare la stessa aria che respirano i personaggi.

Non sono solo le storie in quanto tali, quello che succede, a restare impressi in chi legge, secondo me. A volta addosso resta anche la sensazione magica di aver viaggiato nel tempo e nello spazio, di aver camminato per strade sconosciute, che in realtà, nella vita “vera” non abbiamo mai visto.

Il diner nel deserto“, primo capitolo della Serie del deserto di James Anderson (di cui è recentemente uscito il secondo capitolo, “Lullaby road“), rientra a pieno nella categoria. È un romanzo fortemente americano, che porta quasi fisicamente a respirare l’aria dello Utah, a vedere i suoi paesaggi inospitali e solitari. Ma è anche un romanzo sorprendente, che inizia su note quasi liriche ma si arricchisce via via di elementi thriller, noir e gialli.

Ben Jones è un camionista sull’orlo della bancarotta che effettua consegne lungo la statale 117 del deserto dello Utah, una terra ospitale solo per chi ha scelto di isolarsi dal mondo. Un giorno Ben incontra Claire, che si nasconde dal marito in una casa abbandonata e suona le corde di un violoncello invisibile.

L’amore per Claire porta Ben a stringere amicizia con Ginny, un’adolescente incinta in rotta con la madre, e a fare i conti con il burbero affetto di Walt, il proprietario di un diner nel deserto chiuso da anni in seguito a un terribile fatto di sangue. Tra rivelazioni inaspettate, scomparse improvvise e il furto di un prezioso strumento musicale, tutti incontrano il proprio destino, cieco come le alluvioni che allagano i canyon rocciosi.

“Il diner nel deserto” parte in modo lento, quasi sottotono, in una narrazione che è al 100% realista ma anche, in qualche modo, lirica. Le prime pagine sono tutte dedicate a Ben Jones, con qualche fugace apparizione dei personaggi con cui ha a che fare quotidianamente nel suo lavoro – personaggi che si intonano perfettamente con l’ambiente dove vivono, ruvidi, temprati dal clima inospitale, schivi.

Piano piano le cose cambiano, i personaggi “secondari” si ritagliano uno spazio sempre maggiore, con le loro storie passate e presenti, i segreti che portano con loro e le questioni che aprono. Ci si interroga sulla sorte di Claire, del marito e del violoncello, ma anche sul passato di Walt – uno dei caratteri più sfaccettati e affascinanti, secondo me – e sul futuro di Ginny e del suo bambino. Il ritmo del racconto si fa serrato, da thriller o da noir.

E alla fine si prova grande malinconia, per quello che è stato, per come sono andate le cose, per quello che non potrà più essere. Ma anche curiosità e speranza, perché il sole sorge ancora una volta sulla 117 e sul deserto dello Utah e un camionista si mette in marcia per consegnare pacchi a persone che vivono quasi fuori dal mondo.

 

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Roberta Turillazzi
Giornalista per passione e professione. Mamma e moglie giramondo. Senese doc, adesso vive a Londra, ma negli ultimi anni è passata per Torino, per la Bay area californiana, per Milano. Iscritta all'albo dei professionisti dal 1 aprile 2015, ama i libri, il cinema, l'arte e lo sport.

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