“Il tempo della speranza”: recensione del romanzo di Brigitte Riebe

La trilogia "Le sorelle del Ku’damm", edita da Fazi, si chiude con il romanzo di Florentine

Dopo “Una vita da ricostruire” e “Giorni felici“, Brigitte Riebe chiude la sua trilogia berlinese Le sorelle del Ku’damm con Il tempo della speranza, uscito per Fazi il 31 marzo. Al centro del racconto, questa volta, la minore delle sorelle Thalheim, l’artista Florentine. 

Febbraio 1958. La piccola Florentine, detta Flori, la più giovane delle tre figlie Thalheim, dopo un lungo soggiorno a Parigi ha deciso che è ora di tornare a casa. Ma cosa la aspetta lì? Da che ha memoria, Flori ha desiderato sempre e solo una cosa: dedicarsi interamente all’arte. Ha sempre avuto uno spirito ribelle, combattivo, ma, quando inizia a dipingere, tutto si fa luminoso e leggero.

In disaccordo col padre, che immaginava per lei un futuro nei grandi magazzini di famiglia, si è iscritta all’accademia d’arte. Il suo posto è lì. Ma presto un’ombra oscura la felicità della giovane. Rufus Lindberg, il suo imperioso insegnante, umorale e ineffabile, le sta rendendo la vita un inferno.

Nel frattempo, le tensioni politiche tra Est e Ovest minacciano di dividere in modo definitivo la città, e anche la famiglia. C’è speranza per Florentine e i suoi cari? C’è speranza per Berlino?

La lettura de “Il tempo della speranza” ha confermato ciò che penso di Brigitte Riebe e della sua trilogia. I suoi romanzi sono piacevoli da leggere e ricchi di colpi di scena, ma non hanno né il respiro né la forza (anche stilistica) di altre saghe familiari ambientate in Germania uscite per Fazi negli ultimi anni – penso soprattutto ai libri di Carmen Korn, a cui la stampa ha a più riprese accostato, secondo me incautamente, Le sorelle del Ku’damm

Florentine non era un personaggio particolarmente simpatico nei due romanzi precedenti, quando il punto di vista narrante era quello delle sorelle maggiori Rike e Silvie, e si conferma con tutti i suoi pregi e difetti anche stavolta. Soprattutto nei primi capitoli e nei primi anni, poco dopo il ritorno da Parigi, Flori è immatura, capricciosa, umorale ai limiti del tollerabile.

Una prima donna che pensa che il mondo giri tutto intorno a lei e che ha oggettive difficoltà a provare empatia per gli altri, o anche solo a vederne le ragioni. Il tutto ben si adatta con lo spirito artistico di Flori (siamo abituati a pensare agli artisti come a persone sopra le righe e concentrate solo su se stesse e sull’arte) ma rende difficile provare per lei una vera empatia. Specie quando si tratta di Rufus, è difficile soffocare il pensiero che Flori se la sia andata allegramente a cercare…

Detto questo, la Riebe è brava a far crescere il suo personaggio col passare degli anni. E quando nel 1961 Flori ha ventisette anni e viene eretto il muro che separerà fino al 1989 Berlino est da Berlino ovest, troviamo la piccola di casa Thalheim molto più matura, sensata, donna. E questo ci piace, perché abbiamo avuto modo di leggere il cambiamento in lei e di accompagnarla nel, non sempre facile, percorso.

La trilogia Le sorelle del Ku’damm, per quanto ogni romanzo sia incentrato su una delle sorelle, resta un progetto corale, nel quale vediamo evolversi la vita di tutti i personaggi e anche la Storia europea. Questo è uno degli elementi migliori dei libri della Riebe, che riescono a raccontare, con discreto successo, le vicende di una grande famiglia, due decenni difficili per la Germania e anche l’evoluzione del mondo della moda. E arrivati all’ultima pagina, sappiamo che i Thalheim ci mancheranno.  

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