Il tempo senza ore, Luca Favaro

Marco Galeotto, alla soglia dei cinquant’anni, è un apprezzato maestro di musica e brillante direttore di coro. La sua carriera è all’apice, fino al giorno in cui strane e indecifrabili amnesie cominciano a turbare la sua quotidianità. Una storia struggente, sulla malattia, sul caos che determina non solo in chi ne è affetto, ma altresì in coloro che devono sobbarcarsi l’onere dell’assistenza, spesso abbandonati a se stessi, tanto dai parenti quanto dalle Istituzioni. Una storia d’amore, inteso non soltanto come passione, ma soprattutto come sacrificio e devozione, valori oggi grandemente dimenticati. Un romanzo che s’incide sottopelle, ricordandoci quant’è labile la linea che divide sanità e malattia, invitandoci dunque a godere appieno del tempo che ci è concesso.

Il tempo senza ore, Luca Favaro

Parlare di un tema delicato come la malattia non è mai impresa semplice. Non si può negarlo: da lettori molto spesso preferiamo leggere storie “positive”, dove succedono incidenti di percorso e i personaggi vanno incontro a problemi e difficoltà varie, ma a tutto c’è però comunque una soluzione.

Le storie che raccontano di un qualche male che tocca i personaggi – di titoli usciti di recente mi viene in mente “L’invenzione della madre” di Marco Peano, sofferto, struggente, potente – sono un rischio da scrivere e da proporre sul mercato italiano, perché trovare un pubblico disposto a leggerle, disposto a soffrire davvero sulla pagina, è anche più difficile di trovare un pubblico in generale.

Ecco, voglio partire da questa considerazione per parlarvi del libro “Il tempo senza ore” di Luca Favaro, un libro ben scritto, ben costruito, ma soprattutto emozionante ed emozionato nel vero senso del termine.

L’autore ha deciso di percorrere una strada più complicata della media dei nuovi autori italiani, che si cimentano con romance e distopie in salsa varia. Per farlo ci vuole coraggio – e questo a Favaro va riconosciuto come premessa -, per raccontare una storia come quella di Marco Galeotto ci vuole coraggio.

Coraggio e, direi io, anche capacità, perché il rischio di dare vita a qualcosa che, volendo essere potente, diventa solo pesante era alto. Per sorreggere una storia come quella del maestro di musica e direttore di coro che, all’apice della carriera, inizia a soffrire di strane amnesie che cambieranno per sempre la sua vita, serviva una capacità di scrittura di livello, uno stile sostenuto ma al contempo coinvolgente. Per una storia così serviva una penna di livello. Ebbene, Luca Favaro mi ha sorpreso in maniera positiva, perché nel suo modo di raccontare ho sentito qualcosa del grande romanziere. Una leggerezza di fondo anche nell’affrontare questioni delicatissime, una scorrevolezza nella narrazione capace di portare il lettore ad arrivare comunque, impegnandosi, all’ultima pagina.

“Il tempo senza ore” non è un libro che si legge a cuor leggero, voglio sottolinearlo. Perché proprio come Peano, l’autore ha scelto di non limitare il campo di osservazione al solo malato, ma bensì di ampliarlo, includendo anche le persone che circondano Marco Galeotto. Perché è questo, di fondo, il cuore vero del problema, quello che ci spaventa tanto della malattia: non cambia mai soltanto la vita di chi la soffre, ma incide anche, in maniera differente, su parenti, amici, conoscenti.

Quando qualcuno che amiamo si ammala noi soffriamo, non solo per lui, ma anche, egoisticamente, per noi stessi. Perché la malattia ci ricorda la realtà della caducità umana, del tempo limitato che abbiamo a disposizione su questa terra; la malattia ci ricorda la nostra essenza. È un dato di fatto, a cui spesso non pensiamo per non angosciarci troppo. È normale sia così.

Il libro di Luca Favaro, però, dà a mio avviso una lezione importante, un modo alternativo per guardare al problema. Se è vero che non siamo eterni, che prima o poi dovremo tutti partire, che non ci è dato nemmeno sapere quanto a lungo vivremo, possiamo e dobbiamo vedere questa limitatezza come una possibilità, non come una condanna. Se anche ci fosse rimasto un solo giorno, averlo vissuto al massimo, dando tutto e prendendo tutto da chi ci circonda è il più grande regalo che possiamo fare a noi stessi e a chi amiamo. È con questo spirito di apertura agli altri e alla vita stessa che dovremmo affrontare ogni nostra giornata, per non averne sprecata, alla fine, neppure una.





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Roberta Turillazzi
Giornalista per passione e professione. Mamma e moglie giramondo. Senese doc, adesso vive a Londra, ma negli ultimi anni è passata per Torino, per la Bay area californiana, per Milano. Iscritta all'albo dei professionisti dal 1 aprile 2015, ama i libri, il cinema, l'arte e lo sport.

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