“In solitario” di Christophe Offenstein: non è la solitudine che fa paura

di Giulia Bacchi

“Nessun uomo è un’isola”, scriveva il poeta John Donne, “ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”.

Ci sono dei film che ti fanno riflettere sul significato della solitudine, che è una parola grigia e fredda, che ti fa pensare a un silenzio di quelli fumosi, pesanti, imposti. Spesso un modo per raccontarla è proprio la partenza per un viaggio senza nessuno.

In solitario

È quello che intraprende Yann Kermadec in “In solitario”, film francese del 2013. Yann parte per partecipare alla Vendée Globe, una gara che consiste nel portare a termine il giro del mondo in barca a vela nel minor tempo possibile. Mesi avvolto dal fruscio delle onde, con solo i pensieri a sbattere come martelli contro le pareti della testa. Una figlia e una compagna lasciate a casa, dove il mondo continua a girare, mentre il tempo sulla barca è fermo e in movimento al tempo stesso.

Yann scoprirà ben presto di non essere davvero solo sulla sua barca. A fargli compagnia, oltre ai suoi tormenti di uomo ruvido, difficile e competitivo, c’è un passeggero clandestino. Che, piano piano, come fanno le cose migliori e più inaspettate della vita, cambierà la sua prospettiva quadrata, distruggerà le sue certezze di pietra, scombinerà le sue priorità indiscutibili.

Dopo aver curato la fotografia di pellicole senza infamia e senza lode come Blood Ties (2013) e Piccole bugie tra amici (2010), Christophe Offenstein lancia il guanto della sfida al mondo della regia, firmando un racconto che è un castello di carte per quanto è complesso e fragile, correndo a testa alta il rischio di scadere nella banalità, o peggio nella noia e nel buonismo. Eppure In solitario, girato quasi interamente a bordo di una barca, rappresenta una delle vittorie del “cinema teatro”, quello con solo una o pochissime location, che in questo caso si focalizzano sul mare.

Il personaggio di Yann ha lineamenti aspri, scontrosi e disillusi grazie a François Cluzet, già burbero volto noto di Quasi amici (2012), Parigi (2008) e French kiss (1995). Con quella barba troppo lunga e quello sguardo scuro, Cluzet trasmette fisicamente l’insofferenza e il tormento del protagonista, i muscoli tesi nella lotta perenne per tenere in equilibrio la barca contro le onde in tempesta.

Ed è forse proprio questa l’idea che ci scombussola di questo film: che ognuno deve tenere in equilibrio la barca della propria vita, sia che l’acqua sia piatta sia che le onde dell’imprevisto siano alte quattro metri. Non è facile farlo se a reggere il timone sei solo. Avere un’altra persona a bordo a volte è un peso, a volte un sollievo, sempre una responsabilità.

In solitario parla della paura di affrontare il mare aperto, ma anche di quella di affrontare gli altri. La solitudine, talvolta, risulta essere il male minore rispetto a fronteggiare il mondo reale.

John Donne forse non ha mai fatto un giro intorno al mondo in barca a vela, ma di sicuro la sapeva lunga sugli uomini e sulle loro solitudini, perché scrisse anche: “Debole quell’amore di cui più forte è la paura”. Come dire: prova a smettere di cercarla, la solitudine. Prova a tenere il timone con qualcuno. E di fronte all’onda, che sicuramente arriverà, non chiudere gli occhi: affrontala.


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