Londra incontra Guido Lombardi, regista di “Il ladro di giorni”

A Cinema Made in Italy, botta e risposta con il curatore della rassegna Adrian Wootton

Sono le dieci e mezza di sera a Cinema Made in Italy quando il sipario si chiude su “Il ladro di giorni” (qui la recensione) e cominciai il Q&A con Guido Lombardi, guidato da Adrian Wootton, curatore della rassegna.

Riccardo Scamarcio – dopo i saluti iniziali e una gag per rompere il ghiaccio (Il film dura tre ore, dice lui, la sala si spaventa ma poi lui ride e il pubblico con lui) – si è già dileguato.

Alla fine dei titoli di coda, la platea se ne sta in silenzio, probabilmente assorta dalla lunga e non sempre troppo chiara riflessione che Guido Lombardi sviluppa nel suo film. Gli artefici del nostro destino siamo noi, sembra questo il messaggio di fondo.

Ma quando Lombardi arriva sul palco e il Q&A comincia parte un applauso caloroso. D’altronde, “Il ladro di giorni” potrà avere qualche pecca e incertezza, ma la storia è davvero molto profonda e sentita. Infatti, quando Wootton chiede: “Vi è piaciuto il film?” si sente un coro di: “Sì” a cui fa eco lo stesso regista, scherzosamente: “Dite si, dite si!”.

La storia de “Il ladro di giorni” nasce dodici anni fa, in una sorta di breve racconto di trenta pagine che Guido Lombardi abbozza con già in mente l’idea di un film e di un romanzo. Partono proprio da qui le domande.

 

W: Il film è basato su un romanzo, giusto?

G: Il film non è basato su un romanzo, in realtà io ho scritto un primo soggetto di trenta pagine da cui ho sviluppato poi un romanzo e una sceneggiatura, quest’ultima scritta insieme a De Benedittis e Gianfreda. Per cui, il romanzo e il libro sono nati in parallelo.

 

W: E qual è il fulcro centrale da cui sono nati questi due progetti? Qual è il “cuore della storia”?

G: Il cuore del film sta nella curiosità che io ho sviluppato da piccolo verso mio padre, come persona prima che come genitore. Quando avevo circa undici anni, andai con mio padre al lavoro, mio padre era un giudice, e scoprii in quel momento che lui non era solo il mio papà ma era anche un uomo, con un lavoro, con dei colleghi, impegnato con questioni che non riguardavano la famiglia. Scoprire questa cosa, che mio padre aveva una vita e un passato che non conoscevo un po’ come Vincenzo agli occhi di Salvo, mi incuriosì e mi incuriosisce tuttora. Forse ci vuole una vita intera per conoscere veramente i propri genitori anche se nel film ho concentrato tutto in quattro giorni, trasformando questo sentimento in un viaggio di scoperta per i personaggi.

Lombardi, dopo un ottimo tentativo di risposta in inglese, cattura la simpatia del pubblico, ringrazia Wootton per la pazienza dicendo: “Grazie prof” e tira un sospiro di sollievo: “Mi sembra di stare a un esame di inglese”. La sala ride.

 

W: Quanto tempo hai impiegato per trasformare questa tua curiosità personale in un copione?

G: io sono soprattutto uno scrittore visivo, cioè non sono né uno sceneggiatore né uno scrittore di romanzi, per cui ci ho messo circa dodici anni per arrivare al copione definitivo. Avevo trentadue anni quando ho sviluppato l’idea, ero in un momento in cui stavo cercando di capire se fare lo scrittore o il regista, e quindi quando ho scritto le famose trenta pagine ho provato a fare un po’ tutte e due le cose. Sono un artista poliedrico, rinascimentale!

[Ride e noi con lui]

 

W: In un qualche modo, il tuo film sfugge alla classificazione di genere, prendendo in prestito elementi da vari generi. Quanto è stato importante per te fare un film che non fosse così facilmente classificabile?

G: Bella domanda! La classificazione di genere appartiene alla critica. Dal punto di vista di chi crea, o almeno nel mio caso, c’è solo la ricerca di pezzi significativi per raccontare la storia che vuoi comunicare. Non c’è una finalità critica nella mia scelta di evadere i generi perché tutto quello che ho usato era esclusivamente finalizzato al racconto dell’amore e del rapporto che si crea tra un padre e un figlio.

W: Ed è stato difficile riuscire in questo?

G: Quello che tiene insieme tutto è il mio approccio ironico al cinema, come strumento di comunicazione e modo di raccontare una storia. L’ironia implica una certa distanza senza escludere l’empatia per la storia. In più, la conoscenza dei generi è ormai integrata nella nostra esperienza visiva. Abbiamo visto così tante immagini e film che ormai siamo tutti quanti in grado di capire che cosa è cosa.

 

W: Una cosa che ho amato del film, è l’autenticità del rapporto padre figlio che si è creata tra Riccardo [Scamarcio] e Augusto [Zazzaro]. Come sei riuscito a far instaurare tra i due attori un rapporto così credibile?

G: È una risposta un po’ lunga! Come nelle migliori storie hollywoodiane, dopo centinaia di provini, all’ultima audizione abbiamo trovato Augusto che non era nemmeno venuto là per lui ma per accompagnare un amico. Ma, appena l’ho visto, mi è sembrato subito incredibile. L’ho incluso nell’ultimo giro di provini con Riccardo insieme ad altri quattro bambini per vedere come funzionava con Riccardo. Tutti i bambini sapevano che avrebbero fatto il provino con un grande attore italiano e quattro di questi bambini, vedendo Riccardo, si sono intimiditi. Tranne Augusto che non conosceva Riccardo per niente e si aspettava un altro attore che a lui piace molto. Per cui la sua performance fu la migliore, anche se Riccardo mi disse che Augusto non gli piaceva proprio. Però, Augusto era per me il migliore e l’ho scritturato. Quando Riccardo se l’è visto alla prova costume due mesi dopo, non era contento della scelta ma quando sono incominciate le riprese, sin dal primo giorno, è sbocciato l’amore tra i due. Dopo una settimana di riprese mi telefonò entusiasta di Augusto, chiedendomi di puntare la camera su di loro più spesso. Per cui, la chimica tra Augusto e Riccardo si è sviluppata nel tempo e il rapporto tra loro è cresciuto prima fuori dal set e poi dentro al set. Era proprio come veder crescere il rapporto tra un padre e un figlio che si conoscono per la prima volta e questo fatto si riflette nel film.

 

Un’ultima domanda, dal pubblico. Ci si interroga sul perché della scelta dei luoghi e delle ambientazioni del film.

G: La storia è sempre stata quella di un viaggio dal Nord Italia al Sud. Fin dalla prima stesura di dodici anni fa la storia l’avevo immaginata in Puglia, una regione che ho scoperto durante il mio lavoro da cameraman e dalla quale proviene uno dei miei due co-sceneggiatori. In più, pensavo che la Puglia fosse il posto adatto dove raccontare una forma di criminalità ancora “paesana,” cioè una criminalità non così organizzata e violenta come quella che spesso si racconta in Campania o in Calabria. Chi cresce in un paese spesso incontra il criminale per strada che gli offre le patatine. Per quanto riguarda la scelta della regione a Nord, io dovevo solo individuare un posto che desse la sensazione che il bambino stesse crescendo in una sorta di gabbia d’oro. Per cui, l’ho ambientato in quella che mi è sembrata essere la regione più adatta ai miei bisogni narrativi e in cui girare il film fosse possibile.

 

Si chiude con un sorriso, tra gente che scappa a prendere la metro e gente che si affolla intorno a Guido Lombardi, il viaggio nei retroscena di “Il ladro di giorni.”
La critica ha mosso molti appunti a questo film, ma alla fine “lo core” della storia è così genuino e forte che non si può non andare a vederlo.

 

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Federica Gamberini
Bolognese di nascita, cittadina del mondo per scelta, rifugge la sedentarietà muovendosi tra l’Inghilterra (dove vive e studia da anni), la Cina, l’Italia e altre nazioni europee. Amante della lasagna bolognese, si oppone fermamente alla visione progressista che ne ha la signorina Lotti, che vorrebbe l’aggiunta della mozzarella. Appassionata di storie, nel tempo libero ama leggere, scrivere, guardare serie TV e film, e partecipare a quanti più eventi culturali possibile.

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