Intervista a Margherita Giacobino, scrittrice, giornalista, traduttrice

Il nuovo romanzo edito da Mondadori "L'età ridicola", la crisi dei lettori in Italia, il movimento #metoo

Margherita Giacobino vive a Torino, è una scrittrice, saggista e traduttrice. Ha tradotto, tra gli altri, Emily Brontë, Gustave Flaubert, Margaret Atwood, Dorothy Allison, Audre Lorde. Collabora alla rivista satirica online “Aspirina”.

Il suo primo libro, “Un’americana a Parigi” (Baldini & Castoldi), è uscito nel 1993 con l’eteronimo di Elinor Rigby. Per Eliot, nel 2010, è uscito “L’uovo fuori dal cavagno”. Con Mondadori ha pubblicato “Ritratto di famiglia con bambina grassa” (2015) e “Il prezzo del sogno” (2017).

L’età ridicola” è il suo ultimo lavoro, una storia sull’amore, la morte, la vecchiaia e il rapporto tra solitudini e differenze, tra una vecchia signora dal pensiero indocile e la sua giovane badante straniera, in un mondo in cui sembra che la vita non valga più niente, ma in cui lo sguardo lucido della protagonista riesce a riportare umanità e senso, bellezza e divertimento.

 

Scrittrice, giornalista, traduttrice. Mi sembra quasi riduttivo chiedere se Margherita Giacobino ha sempre saputo che nel suo futuro ci sarebbero stati i libri, e le parole scritte.

In realtà i libri sono stati sempre anche il mio presente; la passione per la lettura mi è stata trasmessa da mia madre, che quando ero piccola mi riempiva gli scaffali di libri per ragazzi (attingendo ai classici per bambine e per maschietti senza fare differenza) e più tardi non ha mai proibito né controllato le mie letture. I libri per noi erano un paese meraviglioso dove poteva accadere di tutto, bastava scegliersi i giusti incontri. E le parole scritte erano l’uscita dal mondo chiuso e limitato del provincialismo italiano di quegli anni, l’ingresso in un universo più ampio, dove si poteva respirare aria non stantia, guardare con lucidità alle cose, e quindi anche agire con libertà. Perciò forse era inevitabile che nell’adolescenza nascesse in me, se pure in forma molto confusa, il desiderio di scrittura. Però ho cominciato a pubblicare molto più tardi, ed essendo sempre stata in qualche modo consapevole di essere un’outsider nella mia visione del mondo, ho scelto non di vivere di libri, semmai di vivere per i libri, facendo altri mestieri per mantenermi, per non dover rinunciare alla mia libertà nella scrittura.

“L’età ridicola” è un romanzo dalle molte anime, che riflette sull’amore, sulla vita e sulla morte da una prospettiva particolare, quella di una novantenne. Prima di tutto, da dove nasce l’idea? Perché ha deciso di raccontare l’Italia di oggi attraverso questo particolare tipo di occhi?

Conosco e amo i vecchi, soprattutto le vecchie, perché da piccola ne sono stata circondata, e ho potuto osservare da vicino questa età, con la sua malinconia, la sua speciale lucidità e il suo humor. E adesso mi sto avvicinando anch’io a quell’età, e volevo portarmi avanti, fare un balzo nel futuro probabile. Mia madre ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in stretto rapporto quotidiano con Rai Tre, era il suo osservatorio sul mondo, e così fa la mia protagonista. Anche Patricia Highsmith (a cui è dedicato il mio libro precedente, Il prezzo del sogno), invecchiando ascoltava sempre più le voci del mondo esteriore, oltre a quelle interiori che popolavano i suoi libri. Per la mia vecchia, come per mia madre e Highsmith, il pianeta entra in casa attraverso la cronaca, le vicende umane suonano familiari e vicine e al contempo esasperanti, assurde, atroci, o a volte semplicemente ridicole. Da vecchi si ha più tempo per ascoltare.

Non è la prima volta, negli ultimi anni, che una persona in là con gli anni diventa protagonista nei libri o al cinema, penso a “The Leisure Seeker” o a “Le nostre anime di notte”, dimostrando che anche un vecchio ha lo stesso diritto di amare, odiare, combattere di una persona più giovane e in forze. Questa carica “della terza età” riflette il progressivo invecchiamento della nostra società occidentale secondo lei? Oppure sono i gusti del pubblico a essere cambiati?

Non so se i gusti del pubblico siano cambiati, in parte forse sì, visto che anche al cinema le storie con protagonisti anziani sono molto più numerose, forse semplicemente stiamo facendo buon viso a cattivo gioco. Oggi si parla molto di più dei vecchi – perché ce ne sono di più e sono un significativo segmento di mercato – ma spesso in tono che mi appare falso, come se fossero semplicemente dei giovani con qualche problema di prostata o di incontinenza, c’è un dover essere giovani che trovo snervante, e soprattutto sminuisce i veri lati positivi della vecchiaia: l’indipendenza di giudizio, l’esperienza del tempo interiore, la possibilità di liberarsi dai desideri indotti, da tutta una serie di dipendenze e convenzioni… Io comunque non volevo scrivere un libro sulla vecchiaia, ma solo un romanzo la cui protagonista è una vecchia, e a spingermi sono state ragioni molto personali, in particolare mi interessava il rapporto con la morte e la perdita. La mia vecchia ha amato molto una donna, Nora, ma l’ha persa – sono cose che succedono, quando si vive a lungo: può accadere di perdere quelli che si ama. Volevo parlare di un amore che finisce, e allo stesso tempo continua, che non c’è più ma c’è ancora.

Il suo primo libro, “Un’americana a Parigi”, è uscito nel 1993. Possiamo definirla senza paura di esagerare una veterana. Quanto è cambiato in questi venticinque anni il panorama editoriale? Oggi è più facile – vista la proliferazione di formati, soggetti e possibilità – pubblicare un libro ma più difficile farlo leggere?

Nel 1993 sono uscita in una collana comica, “Le Formiche”, di Baldini e Castoldi. Ho faticato per arrivarci, e lo devo alle amiche che mi hanno sostenuta e indirizzata; ho sempre faticato per pubblicare, e negli ultimi anni ho avuto la fortuna di affidarmi a un’agente bravissima e di trovare delle editor umane e intelligenti con cui c’è affinità e intesa. Sì, forse oggi è più facile pubblicare, vista la quantità enorme di libri che si stampano e la possibilità di auto-pubblicazione. Ma bisogna accettare che pubblicare non significa per forza avere successo, diventare famosi. Essere letti, letti veramente, è forse ancora più difficile che pubblicare, non bisogna aspettarselo, ma se accade è meraviglioso.

Come valuta la situazione italiana, dal punto di vista culturale ed editoriale in particolare? Perché si legge sempre meno, secondo lei?

Non so se oggi la gente legga meno di un tempo, dopotutto cinquant’anni fa stavamo appena uscendo da un analfabetismo diffuso e non eravamo certo un popolo di letterati. Non mi scandalizza neanche che i libri siano un mercato come un altro; mi sembra più grave il fatto che non leggano i giovani (e che non sappiano neanche scrivere, a quanto dicono certe indagini, pur se non rinunciano a pubblicare). Ma ho fiducia nelle imprese individuali, spero che continui a esserci chi legge e scrive e soprattutto diffonde la passione per i libri – come ho sempre cercato di fare io – nuotando controcorrente. L’Italia è ancora provinciale, forse non meno di quanto lo era nella mia gioventù, e lo prova una certa politica delle traduzioni: traduciamo tantissimo soprattutto dall’inglese e ovviamente best-seller, ma ci sono libri molto belli che sono stati anche tradotti in tante lingue che da noi non arrivano, o arrivano dopo decenni. Un esempio: il romanzo che ha reso famosa Dorothy Allison, “Bastard out of Carolina”, è stato pubblicato in Italia solo recentemente, a ventisei anni dalla sua apparizione negli USA; della stessa autrice ho curato, per la casa editrice indipendente Il Dito e La Luna, la raccolta di racconti “Trash”, nel 2006, un libro bellissimo che però ha raggiunto un pubblico molto limitato.

Visto il suo curriculum e gli ambiti di cui si occupa e si è occupata negli anni, non posso non chiederglielo: cosa ne pensa del #metoo, della ripresa dei movimenti femministi o pseudofemministi e in generale della grande attenzione, anche mediatica, per le questioni di genere? È possibile che tutto questo porti a un cambiamento reale, oppure tanto fumo e poco arrosto?

I movimenti femministi – adesso come decenni fa – sono tanti e non si può generalizzare. Spesso i più radicali e interessanti sono quelli che fanno meno notizia. #metoo ha il merito di parlare di qualcosa di molto reale, le molestie e le violenze ben note alla maggior parte delle donne del pianeta, ma lo fa sovente con metodi mediatici che personalmente non mi convincono, suscitando partigianerie, odi e ripicche più da stadio che da presa di coscienza. Inoltre un femminismo condotto in prima linea da attrici, che spesso sono anche sex symbol, mi sembra molto adatto a questa età ridicola. Non ho mai pensato che un vero cambiamento possa venire attraverso tribunali e leggi, ma soltanto da mutamenti radicali del modo di pensare, parlare e stabilire relazioni fra le persone.

Archiviato “L’età ridicola” sta già lavorando a qualcosa di nuovo? Cosa dobbiamo aspettarci da Margherita Giacobino nel prossimo futuro?

Faccio parte di quegli artigiani che non fanno vedere i prototipi se non quando sono finiti, perciò non parlo mai di un lavoro in fieri. Anche quando faccio una torta, aspetto di averci messo le ciliegine prima di presentarla agli ospiti. Perciò, come dicono gli americani, thank for asking, ma al momento non ho una risposta.

 

Previous article“A star is born”: Cooper e Lady Gaga in un classico remake hollywoodiano
Next article“Maniac”: un cast stellare per una serie non tanto innovativa
Roberta Turillazzi
Giornalista per passione e professione. Mamma e moglie giramondo. Senese doc, adesso vive a Londra, ma negli ultimi anni è passata per Torino, per la Bay area californiana, per Milano. Iscritta all'albo dei professionisti dal 1 aprile 2015, ama i libri, il cinema, l'arte e lo sport.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here