Intervista a Michela Occhipinti, la regista di “Il corpo della sposa”

Dal documentario alla storia di Verida, ragazza nella Mauritania che pratica il "gavage"

Regista itinerante e cittadina del mondo, Michela Occhipinti arriva a Londra con il suo primo lungometraggio, “Il corpo della sposa” (qui la recensione), storia di una ragazza della Mauritania sottoposta al rito del “gavage” in vista dell’imminente matrimonio.

Il percorso di Michela nel cinema inizia negli anni ’90, proprio da Londra, e prosegue a Roma come regista e responsabile casting per varie produzioni internazionali e nazionali. Verso i primi anni duemila inizia a girare il mondo, cercando storie che diventeranno poi soggetti per i suoi documentari – “Sei uno nero”, sull’apertura di una radio in Malawi per aiutare la prevenzione dalla malaria e dall’HIV, oppure “Lettere dal deserto”, riflessione profonda sulla lentezza in un mondo che si muove e cambia ad altissima velocità.

È in questo percorso che si inserisce “Il corpo della sposa”, film dove la scrittura della regista si mescola alla storia vera di Verida per spingere a riflettere su temi universali, quali la non-libertà del corpo della donna.

Quattro autobus e due metro dopo, riesco finalmente ad incontrare Michela Occhipinti al foyer del Ciné Lumière dove lei mi aspetta. Non faccio in tempo a riprendere fiato che subito mi lancio in una conversazione profonda con la regista, partendo da domande di rito per arrivare a discorsi caricihi di significato. Perché Michela è un’interlocutrice un po’ così: parte da cose piccole per esplorare poi tutta la loro profondità.

 

Buonasera Michela.

Ciao.

Prima di arrivare a Londra, il tuo film ha girato tutta l’Italia e tu con lui. Come ha reagito il pubblico di fronte a una storia così particolare?

Allora, il film è stato in tutti e cinque i continenti e in Italia è stato distribuito in tantissime città, ma qui [a Londra] l’ho accompagnato io personalmente. Francamente, siccome parliamo di un pubblico generalmente non abituato a vedere film in lingua originale, soprattutto in un dialetto arabo, è stato complesso presentarlo in questi contesti. Ho visto reazioni di tutti i tipi però, devo dire la verità, nonostante le sensazioni variassero e variano da persona a persona, perché quelle sono umane e ognuno ha diritto ad avere le proprie, la maggioranza degli spettatori ha veramente capito quello che volevo dire.

E secondo te come mai, nonostante la distanza tra il pubblico e la realtà che racconti, così tante persone sono riuscite a capirti?

Io credo che il tema, per quanto al primo approccio possa sembrare distante dalla nostra cultura e società, porta in sé qualcosa di universale. Superato l’iniziale choc culturale, Verida è una ragazza e una donna come tante altre, con una certa forma fisica, soggetta all’influenza di fattori esteriori che le dicono che quella forma non va bene. Da qui ha inizio un processo di martorizzazione del proprio corpo, per raggiungere quella forma ideale che non è mai frutto di una sua scelta volontaria. E questo è vero per tutte le donne, che da sempre hanno subito pressioni riguardo al loro corpo. Per esempio, in Corea del Sud le donne si rifanno il mento a V o gli occhi all’occidentale, seguendo l’estetica dei manga; altrove ricorrono alla chirurgia estetica estrema per avere il seno in un certo modo o per ringiovanirsi. Allo stesso modo, ci sono Paesi in cui le donne vengono messe all’ingrasso per essere belle. Non importa in che modo il corpo della donna venga rifatto, ma la matrice da cui nasce questo bisogno è sempre la stessa, ossia un condizionamento che viene dall’esterno, sia esso legato alle tradizioni, alla cultura o alla moda. Per questo il tema del film è universale. Al di là dei diversi costumi che ci definiscono, siamo molto più definiti dalla nostra esperienza come essere umani.

Data l’universalità del tema, come mai hai scelto di raccontarlo attraverso gli occhi di una donna mauritana sottoposta al gavage?

È stato un caso ma non del tutto casuale. Nel senso che in fondo, portare avanti questa riflessione attraverso un paradosso antitetico, l’ho trovato molto utile, anche per me stessa, perché per quanto mi sentissi libera, durante questi sette anni di lavorazione mi sono resa conto che avevo molti pregiudizi sulle forme. Lavorando con questa storia mi sono resa conto di che cosa sia la verità, cioè che le forme non contano nulla e sono solo imposizioni. Quello che conta è quanto noi ci accettiamo e ci amiamo, e non è solo una questione di corpo ma è anche di anima. Quando impariamo ad amarci e ad accettarci arriva l’armonia e l’armonia è molto più importante della forma.

E per te era più difficile esplorare questi aspetti con una storia ambientata in Italia, per esempio?

Tanti potrebbero chiedersi perché non ho trattato di una storia ambientata in Italia, ma la verità è che i confini e le barriere ce le creiamo noi. Noi viviamo in un modo ricco di similitudini, soprattutto tra le persone. Ci sembra tanto che l’abbigliamento, la cultura e le tradizioni ci definiscano, ma in realtà quello che ci definisce tutti come essere umani è il desiderio di essere guardati e amati per quelli che siamo. Non vogliamo che gli altri, siano essi un marito o un genitore, proiettino su di noi delle figure diverse da ciò che siamo. Noi vogliamo essere guardati per quelli che siamo, vogliamo essere liberi. E questo è un grande tema del film perché sono queste le cose che ci accumunano di più.

Che cosa ti ha spinto a rischiare il passaggio dal documentario al cinema narrativo per raccontare questa storia?

“Il corpo della sposa” era cominciato come documentario ma man mano è diventato un film, perché mi sono resa conto che il gavage era una storia veramente complessa. In più io lo volevo raccontare focalizzandomi sulla storia di una ragazza ma era complesso trovare una ragazza che avesse quel tipo di entourage di cui avevo bisogno, tra amiche che praticano il gavage, chi invece prende le pillole, chi non lo fa proprio. Volendo raccontare una storia di un Paese di cui non si sa quasi niente, avrei portato lo spettatore a credere che tutti in Mauritania fanno il gavage. Per cui, alla fine, il film era diventato uno di quei casi in cui quando scrivi rendi più reale la realtà che racconti.

In questa tua riflessione sul corpo della donna e la libertà, scegli la socialità intima e privata del “wengala” come un momento di liberazione per le protagoniste. Scelta narrativa oppure è veramente un momento così liberatorio per le donne sottoposte al gavage?

Sì, è veramente così! Quando ho cominciato a girare le case di queste donne e a incontrarle grazie a Sidi, il ragazzo che porta la bilancia nel film, man mano ho conosciuto sempre più persone, compresa la famiglia di Sidi. Quando andammo a Nuadibu, che è a Nord ed è la capitale della Mauritania, Sidi mi portò da sua cugina che stava organizzando una wengala, per cui presi parte a questo evento come ospite e fu un’esperienza travolgente. Non potevo credere che delle donne si incontrassero volontariamente dopo pranzo per ripranzare e mettere su qualche chilo per riempire meglio il velo prima di un matrimonio o di un evento importante, esattamente come io e le mie amiche magari ci mettiamo a dieta prima di un matrimonio per stare meglio nel vestito che ci vogliamo mettere.

Ed è questa volontarietà che lo rende un momento liberatorio?

Questa parte è considerata volontaria tanto quanto è volontario il fatto che una donna vada a farsi “tagliare” il corpo da un chirurgo plastico. Durante il wengala, queste donne iniziano mangiando, chi non ha partecipato al wengala precedente porta dolcetti di cioccolata per farsi riaccettare dal gruppo, e tutto questo viene fatto in modo volontario, nel senso che nessuno le obbliga ma sono comunque condizionate dalla società a farlo perché vogliono prendere qualche chilo allo scopo di piacere a un uomo o trovare qualcuno al matrimonio di un’altra. In fondo, anche se il gavage sta scemando, soprattutto nelle grandi città, è diventato un fatto culturale.

Che cosa intendi per “fatto culturale”?

Quello che intendo è che nonostante il gavage, come rito, stia scomparendo, l’idea di essere grasse per essere belle è rimasto un fatto culturale, così come da noi l’essere magri è un canone estetico. Naturalmente, tra le ragazze di classi sociali più elevate, i canoni stanno cambiando perché in fondo il gavage nasce dal bisogno di un capo famiglia di dimostrare il suo essere così benestante da non far lavorare le donne e nutrirle bene. Adesso, chiaramente i tempi sono cambiati e le famiglie più ricche dimostrano il loro benessere attraverso altre pratiche, comprandosi una casa grande, dei macchinoni, gioielli e prodotti di marca ad esempio. Chi è povero usa gioielli e prodotti falsi, un po’ come da noi.

Ritornando al tuo lavoro di ricerca sul soggetto del tuo film, da “occidentale,” come sei stata accolta dalle donne locali che hai incontrato? È stato difficile spiegare perché ti interessasse raccontare le loro storie?

Intanto, il fatto che io andassi nelle case con Sidi cambiava tutto. Poi, io vengo dal documentario e anche se non mi ritengo una regista tecnicamente brava, credo che un mio punto forte sia l’empatia, la capacità di entrare in contatto con le persone un po’ come quando si fa amicizia. In più, alle donne che ho incontrato ho spiegato molto bene l’intento di questa storia, che non era di criticare la loro società ma quello raccontare il corpo delle donne da un altro punto di vista. Mentre di anoressia, bulimia o chirurgia estetica si parla di più oggigiorno, forse raccontare l’altra parte dello specchio, quella di donne che devono diventare abbondanti per forza, ci può aiutare a riflettere in modo diverso su questi problemi.

E le tue interlocutrici capivano queste tue riflessioni e intenti?

Si, le capivano perché io gli spiegavo cosa succedeva nel mio paese, per esempio il fatto che non si può essere vecchi e che per nascondere le rughe la gente si fa di tutto. Poi, il fatto di tornare continuamente in Mauritania ha fatto capire a queste donne che il mio intento era profondo. Ho creato dei rapporti con queste persone, aiutata anche dal fatto che non sono arrivata con una troupe molto numerosa, era tutto molto semplice.

Parlando della tua protagonista, Verida, come è stato il tuo incontro con lei? E perché l’hai scelta per questo ruolo?

Io l’ho incontrata inizialmente nel 2012, quando l’ho incontrata era la fine del mio primo mese di viaggio speso a sentire storie e a cercare una protagonista. Non riuscivo a spiegare bene che tipo di protagonista cercassi, dicevo sempre che quando avessi incontrato la ragazza giusta, l’avrei sentito e l’avrei capito dal suo sguardo. Quando ho incontrato Verida, ho sentito questa cosa. Verida voleva tanto fare l’attrice, anche se in Mauritania non c’è un cinema o case di produzione grosse. Quindi, per lei era difficile coltivare questo sogno. In più, all’età di diciassette anni, Verida era stata promessa in matrimonio e aveva già fatto il gavage. Quando l’ho vista ho notato il suo sguardo selvaggio, focoso ma anche malinconico. Mi ha convinto subito. Nel frattempo, il film è stato ritardato e quando sono tornata nel 2016, Verida si era risposata e mi era stato detto vivesse in Turchia. Però poi al casting si è presentata e io ho l’ho scelta subito.

Lavorando con attori non professionisti, come hai impostato il tuo lavoro con loro? Ed è stato difficile dirigerli?

È stato un gran casino! Io, prima, avevo fatto un bel po’ di reportage e documentari. Poi avevo fatto un documentario in cui era stato semplice dirigere il protagonista, perché doveva camminare e replicare quello che faceva tutti i giorni. Però, essendo io molto istintiva quando dirigo, è stato complesso gestire il cast del film. Abbiamo dovuto fare molte prove con gli attori, visto che molti non erano abituati a recitare ed erano molto sopra le righe. Anzi, molti di loro erano familiari reali di Verida che ho scelto per far si che interagissero fra di loro in modo più naturale. Solo la nonna e il papà, che in realtà è lo zio, avevano già recitato in un film. Per cui, la mattina o la sera funzionavano che passavamo almeno due ore con gli attori a fare le prove e a memorizzare le battute. Poi giravamo le scene che, a parte alcune cose, giravo lì per lì, collaborando con la meravigliosa Daria D’Antonio, a seconda di come loro si muovevano nella stanza. Quindi, più o meno, il grosso delle mie energie le ho investite sul set, lavorando sulla recitazione degli attori.

In tutto questo lavoro con gli attori, qual era la cosa più importante che cercavi di tirare fuori da loro?

Io sono molto insicura, ma mi ripetevo tutti i giorni che tanto errori ce ne sarebbero stati e anche difetti, però era importante che ci fosse del cuore e perché ci fosse del cuore, gli attori dovevano mettercelo. E questo per me era fondamentale. Verida poteva attingere alla sua esperienza per rendere le scene al meglio, ma aveva bisogno di aiuto per farlo perché non ha mai fatto l’attrice.

Pensi che questo modo di dirigere caratterizzi i tuoi lavori? È un’esperienza che ripeteresti?

Penso che continuerò a lavorare così. Il mio prossimo progetto forse è un documentario o forse è un film, dipende da cosa incontrerò quando farò i sopralluoghi. Ma non voglio lavorare con gli attori. Mi piacciono i film, ma quando li faccio trovo che nella realtà ci siano così tante storie interessanti, che non mi va di inventare. Al massimo, posso intervenire in fase di scrittura per mettere tutto insieme, per amalgamare, ma non mi va di inventare. Voglio amalgamare la realtà, magari aggiungendo immagini che ho in testa.

Grazie mille per essere stata qui con noi Michela.

Grazia a te!

 

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