Intervista a Nadav Lapid, regista del film Orso d’Oro alla Berlinale 2019

In "Synonyms" racconta di un giovane che vede nella Francia il "Paradiso in terra" ma dovrà ricredersi

Nadav Lapid, regista del film "Synonymes"

Qualche giorno prima della cerimonia di premiazione della Berlinale ho avuto l’occasione e il piacere di incontrare Nadav Lapid, il regista israeliano di “Synonyms”, ancora ignaro che il suo film avrebbe poi vinto l’Orso d’Oro.

Scoprite cosa ci ha detto a proposito della sua ultima opera.

 

Le parole sono essenziali nel tuo film. Quanto credi che siano importanti nel cinema moderno in generale?

Esiste una dicotomia tra film di parole e film di azioni. Io non sono d’accordo con coloro che dicono che le parole non sono materiale cinematografico, perché credo che le parole siano un altro tipo di materiale in un mondo fatto di corpi, movimenti, musica, melodia… A volte sono parole vere, a volte false, sublimi, o volgari, costituiscono un’altra voce in questo coro che è il cinema. Nel mio film le parole assumono un significato ma hanno anche una musica, proprio come ora che stiamo parlando.

Paragonato ai tuoi film precedenti, “Synonyms” appare diverso per le inquadrature, i movimenti della telecamera e il senso estetico. Come mai?

Mentre giravamo “Synonyms” cercavamo in ogni scena l’autenticità del movimento. Sentivo che era impossibile creare distacco tra le emozioni del personaggio e quelle della telecamera. Non capivo per quale motivo, se la persona è agitata, la telecamera dovesse restare calma e fredda: mi sembrava arrogante da parte sua non seguire le emozioni del personaggio. È stata una decisione registica, perché talvolta la telecamera deve essere agitata come il personaggio, a volte persino di più, dipende. Per esempio, le scene in cui Yoav girovaga senza meta per le strade sono state riprese con un’altra telecamera, perché anche la persona che la manovrava doveva essere capace di sentire le emozioni del personaggio e quindi infonderle nelle immagini che stava filmando.

Il corpo è un elemento molto presente e molto potente, messo notevolmente in mostra. Perché?

Yoav è una dicotomia ambulante, tra Israele e la Francia, tra le sue origini e le sue ambizioni… Potremmo ipotizzare che il corpo sia Israele nelle parole della lingua francese. Yoav rimpiazza le parole ebraiche con parole nuove perché se sta scappando dai demoni che ha visto in Israele è logico che voglia smettere di parlare la lingua di quei demoni, perché quelle parole contengono ciò da cui lui sta fuggendo. Per la stessa ragione maltratta il suo corpo, per liberarsi di ciò che lo collega a Israele: all’inizio quasi muore congelato, poi digiuna, poi vende il suo corpo quasi prostituendosi, ma il corpo resiste sempre e riporta alle sue labbra la lingua ebraica. Inoltre, la forza e la perfezione del suo corpo sono un mezzo per evitare di suscitare empatia nel pubblico: quando un uomo ha il corpo di una statua greca è più difficile cadere nella trappola di avere pietà per lui.

Ma il suo conflitto è tutto contro se stesso, e scappare lontanissimo non risolverà i suoi problemi.

Sì, i demoni sono dentro di lui, un po’ come nei film horror, tipo “Rosemary’s Baby”! È in qualche modo attratto da questi demoni, per esempio fa amicizia con quell’altro israeliano a Parigi che politicamente parlando è il suo opposto.

Tom Mercier, Quentin Dolmaire e Louise Chevillotte in una scena del film.

Per quanto riguarda lo stile, la prima parte del film è più teatrale, mentre la seconda più piena di azione. C’è una ragione dietro questa scelta?

Penso che sia dovuto al fatto che nella prima parte la situazione è costante, il suo umore è più o meno costante. Ma poi c’è un momento in cui le cose si mescolano, quando lui realizza che è fuggito dal demone israeliano solo per imbattersi nel demone francese, e da questo punto in poi le cose accelerano.

Perché hai scelto di far parlare ebraico al protagonista in quelle due scene specifiche, quella dal fotografo e quella quando canta l’inno nazionale di Israele?

La scena nello studio del fotografo è in bilico tra l’umiliazione ed il sublime, con lui disteso nudo sul pavimento… Ho sentito istintivamente che quello era il momento in cui lui non poteva più alienarsi dalla sua lingua madre. La scena dell’inno nazionale è il momento in cui tenta di raggirare la Francia: priva l’inno del suo carattere cerimoniale ma insiste a finirlo tutto, come per dire: “Solo io posso insultare la mia famiglia e voi non dovete interrompermi!”.

Quando esattamente si sente tradito dalla Francia, scoprendo che non è il paradiso che lui immaginava?

È un processo, si sviluppa in varie scene. Forse comincia quando è con Emile nella boulangerie e sembra che Emile ne abbia abbastanza di lui; poi continua quando è al corso per prendere la cittadinanza francese. Si accorge dei difetti della Francia, di quel modo che ha di accettarti facendoti allo stesso tempo capire che non sarai mai come loro, che resterai in una sorta di Purgatorio dantesco. Per uno che tratta le parole francesi come portatrici di redenzione e i suoi cittadini come angeli, la delusione è inevitabile. L’inno nazionale francese è violento e crudele, e mi è sembrato paradossale mostrare un gruppo di immigrati che lo cantano, che cantano del loro sangue impuro che impregnerà le strade!

E per te è stato facile o difficile prendere le distanze dal protagonista?

Per potermi distaccare avevo bisogno di trovare un attore che calzasse a pennello, perché quando fai un film con un personaggio basato su di te ti serve qualcuno che sia ancora più perfetto di te per quel ruolo. Un conoscente mi aveva parlato di Tom Mercier e allora l’ho chiamato per un provino, ed è stato formidabile. Ha questo strano mix di ossessione per il dettaglio e libertà di interpretazione: conosce il copione a memoria, ma riesce ad agire con libertà in mezzo a tutti i dettagli. Considera il copione come una Bibbia, lo legge e lo rilegge finché non lo assorbe al punto che tu non vedi più il copione, tanta è la spontaneità con cui recita.

Se dovessi inserire “Synonyms” in una categoria quale sceglieresti? Può essere una commedia drammatico-satirica, dato il suo costante elemento umoristico?

Ho letto parecchie descrizioni diverse: commedia disperata, eroe tragico… Io non saprei come etichettarlo. Ho voluto seguire la verità del momento, e a volte questo risulta in una struttura un po’ caotica. È comunque una struttura che va dalla A alla Z, ma alcune scene potrebbero essere sinonimi le une delle altre, dando così al film una costruzione circolare, visto che inizia con lui che bussa a delle porte chiuse e finisce con lui che picchia su una porta chiusa.

Nel film, consideri la Francia come un sinonimo di Israele?

In un certo senso, forse sì. Ma sono sinonimi molto distanti, come Yoav ed Emile, lontanissimi ma legati nel profondo.

L’esercito sembra un elemento importante nel cinema israeliano, esplorato ad esempio anche da Samuel Maoz nei suoi “Lebanon” e “Foxtrot”. Qual è la tua interpretazione di questo tema? 

Il problema dell’esercito è che contiene la vera essenza dello stato. Immaginate di capire già da bambini che essere un soldato significa correre veloce, essere coraggioso, non essere troppo sensibile, essere bravo a sparare, non aver paura di morire, e non avere molti dubbi. Questi sono i valori principali che danno una struttura allo stato intero. Per cui l’esercito inizia quando sei un bambino e non finisce mai. Ci sono tanti film israeliani che muovono una critica precisa all’esercito, ma io cerco di parlare di altro e guardo all’esercito solo come aspetto rivelatore dell’anima di Israele. E Yoav sta scappando dall’anima di Israele. Era bravo come soldato, il che rende le cose ancora peggiori. Quando suo padre ipotizza che sia stato traumatizzato dall’esercito, lui obietta che in realtà si è pure divertito: potrebbe ammettere di essere stato traumatizzato e invece no, va oltre, e secondo me quando riesci a parlare del post trauma sei già guarito. Mi ricordo quando ho terminato il periodo di leva militare alla frontiera e sono tornato a casa: mi sono preso da bere con un amico e il giorno dopo ho cominciato a lavorare. Non c’era niente da raccontare perché tutti l’avevano fatto, era una cosa normale. Ed è proprio quando si normalizza l’anormale che i mostri iniziano a ingrandirsi.

Ma il trauma resta?

Sì… Ma non mi piace questa nozione del trauma, trovo che se ne faccia abuso. L’effetto comico nel film nasce spesso da qualcosa che ti sembra spiritoso e poi scopri essere serio. È il divario tra divertente e spaventoso. Allo stesso modo, pensi che la tua storia sia speciale e poi scopri che invece è normale.

Come mai hai scelto di fare dei riferimenti all’Iliade di Omero?

Da bambino ammiravo molto Ettore, a Carnevale mi vestivo da lui, e i miei genitori nascosero il libro per non farmi scoprire che lui veniva sconfitto. In Israele c’è l’ossessione della vittoria e dell’eroismo, pensiamo di dover vincere ogni guerra. Ma guardate i francesi, hanno perso varie guerre eppure sono ancora qui! Quindi fare il tifo per il perdente nella mitologia è già un atto sovversivo. E poi, Ettore non ha semplicemente perso contro Achille, ma è stato battuto dalla morte stessa, perché nessun eroe potrà mai essere forte come la morte. E questo Yoav lo capisce, invece il nostro Paese no: è ancora prigioniero del mito dell’eroismo e inconsapevole che la morte è più potente di qualsiasi eroe.

 

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Valeria Lotti
Originaria della provincia di Roma, vive tra l'Europa e la Cina, coltivando la sua passione per lo studio di società e culture. Dottoranda a Berlino, ama scrivere di cinema, viaggi e letteratura. Si ritiene democratica e aperta alla critica, purché non sia rivolta ai libri di Harry Potter.

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