Intervista a Peter Murimi, regista del documentario “I am Samuel”

Fonti di ispirazione, tecniche per costruire un film perfetto, la “crisi della mascolinità” nel Kenya di oggi

Nel corso di questa edizione 2020 del London Film Festival, approda nella fredda e grigia Londra “I am Samuel”, nuovo lavoro di Peter Murimi, pluripremiato regista keniota famoso sia per i documentari molto attuali e forti, che parlano di temi quali la crisi della mascolinità in Kenya e la mutilazione femminile, sia per i suoi exposé realizzati per Al Jazeera.

Nel suo film, Murimi segue la vita di un ragazzo keniota omosessuale, Samuel, per esplorare a fondo il conflitto fra identità personale e ruoli che la società impone all’individuo. Facendolo, Murimi continua il lavoro della casa di produzione We are not the Machine, il cui ethos è quello di esplorare realtà e persone altresì lasciate senza una voce.

Il regista Peter Murimi.

Incontro il regista nel mio salotto, via Zoom, e per la prima volta sono costretta a confrontarmi con un’intervista ufficiale in forma digitale, cercando disperatamente di fare buon uso dei venti minuti di conversazione che mi sono stati accordati.

Murimi si dimostra disponibile e generoso, disposto a rispondere a ogni mia domanda nonostante una connessione ballerina, che salta un po’ di qua e un po’ di là.

 

Ciao Peter e benvenuto su Parole a Colori.

Ciao Federica, grazie.

Vorrei cominciare da una domanda personale. Ci puoi raccontare com’è iniziata la tua carriera da documentarista e che cosa ti ha spinto a intraprenderla?

La mia carriera da documentarista è cominciata per caso, dopo che ho abbandonato gli studi universitari per diventare insegnante di chimica. Durante il secondo anno, mi sono accorto che non mi piaceva fare quello che stavo facendo e ho lasciato il corso, anche se non è stata una scelta facile perché nella cultura africana studiare all’università è molto importante. Mio padre non era contento per niente. Per circa due anni ho lavorato nel suo ristorante come cameriere, ma sentivo che quella vita in un piccolo paese nel sud del Kenya mi andava un po’ stretta e così ho fatto domanda per un corso in pubblicità, solo per andarmene di casa. Però, quando ho cominciato mi sono accorto di amare veramente quello che stavo facendo e così sono andato avanti, senza più guardarmi indietro, fino a che non sono entrato nel mondo della regia e dei documentari.

Nei tuoi documentari combini in modo particolare ma organico musica, regia e sceneggiatura. Qual è la tua ricetta per bilanciare tutti questi elementi?

Alla base di tutto, soprattutto in “I am Samuel”, c’è la voce del protagonista. Nel caso specifico di questo documentario, per noi era fondamentale che la storia di Samuel risultasse autentica e, per raggiungere questo risultato, ho collaborato a lungo e costantemente con l’editor e con Samuel stesso. Una volta che siamo riusciti a rafforzare la voce del protagonista e darle il tono e la direzione giusta, tutto il resto è venuto da sé come, per esempio, scegliere la musica migliore che potesse accompagnare la sua voce mentre si racconta. Allo stesso tempo, è stato più semplice capire che aspetti della vita di Samuel fosse necessario osservare e riprendere, riuscendo anche a catturare il contrasto tra la città e la campagna. Da un punto di vista visivo, abbiamo lavorato tanto per trasmettere questa differenza.

Parlando di questa ricerca di autenticità in “I am Samuel”, come sei riuscito a entrare nella vita del tuo protagonista e delle persone intorno a lui senza che perdessero la loro genuinità? Erano al corrente del progetto? Sapevano di far parte di un documentario?

Se ci sono voluti cinque anni per realizzare questo film in parte è proprio perché c’è voluto tempo per costruire un rapporto intimo e personale con queste persone. Per farlo non ci sono scorciatoie: le persone devono conoscerti, sapere chi sei; devono fidarsi di te e di quello che stai cercando di comunicare. Una volta che mi sono guadagnato la loro fiducia e hanno capito cosa volevo fare, è stato tutto molto semplice e naturale.

È molto interessante che, nel film, Samuel cominci il suo racconto dicendo proprio che tu l’hai convinto. Come mai hai scelto la sua storia? Cosa ti ha colpito di lui?

Sin da subito ho trovato Samuel una persona molto interessante. La società, soprattutto in Kenya, ha la tendenza a metterci dentro a delle “scatole”, a darci un’etichetta. Se sei omosessuale le persone si aspettano che ti comporti in una carta maniera, ma Samuel ompe tutti questi schemi. Ha una forte fede cristiana, è molto conservatore e profondamente africano, ma anche omosessuale, e per me la sua storia è interessante perché dimostra che dare etichette alle persone e aspettarsi da loro un certo comportamento è sbagliato. Dovremmo essere tutti trattati come individui e avere la possibilità di agire in linea con chi siamo. La storia di Samuel mette in luce degli aspetti molto interessanti della nostra identità e della società, dimostrando come categorizzare le persone sia problematico.

E come sei riuscito a convincerlo a raccontare la sua storia?

In realtà, non ce n’è stato bisogno. Quando gli ho raccontato del progetto, Samuel mi ha raccontato che, quando era ragazzo, pensava di essere l’unico omosessuale nel suo paese e, per questo, è stato sin da subito motivato e disposto a partecipare al progetto, perché lo vedeva come un modo per parlare ai giovani e dare un modello positivo a tutti coloro che affrontano le stesse problematiche che ha dovuto affrontare lui da ragazzo. Partecipare al documentario era un modo per Samuel per dire a questi ragazzi che non sono soli.

Della “crisi della mascolinità” parli anche i in un altro tuo documentario, che hai realizzato per la BBC, “Gli uomini in Kenya sono in crisi?”. Perché sostieni che l’identità maschile in Kenya sia in crisi?

Il tema della “crisi della mascolinità” mi è molto caro. Io stesso sono un uomo di quarant’anni che è cresciuto in una società patriarcale che definisce chiaramente cosa dovrebbe fare l’uomo. Noi dobbiamo essere forti, provvedere alla famiglia, garantirne la continuità. Il problema è che il mondo è cambiato drasticamente e riconciliare questa idea di identità maschile con la società di oggi è problematico. Soprattutto in Kenya, dove le condizioni economiche non aiutano gli uomini ad adempiere a questo ruolo. Al contrario, le donne si sono adattate meglio alla mutata situazione, e oggi provvedono loro alla famiglia e prendendo il posto dell’uomo.

E, in “I am Samuel”, quali aspetti di questa crisi senti di aver affrontato maggiormente?

In “I am Samuel” il problema viene visto da un punto di vista dell’identità di genere e sessuale. In quanto uomo, ti viene spesso detto che non puoi essere omosessuale ma, se lo sei, questo crea grande confusione perché tu ti identifichi in un modo ma il mondo intorno a te ti dice che non puoi essere in quel modo.

Con questo messaggio molto profondo chiudo la mia intervista e ti ringrazio per essere stato con noi.

Grazie a te, è stato un piacere.

 

 

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Federica Gamberini
Bolognese di nascita, cittadina del mondo per scelta, rifugge la sedentarietà muovendosi tra l’Inghilterra (dove vive e studia da anni), la Cina, l’Italia e altre nazioni europee. Amante della lasagna bolognese, si oppone fermamente alla visione progressista che ne ha la signorina Lotti, che vorrebbe l’aggiunta della mozzarella. Appassionata di storie, nel tempo libero ama leggere, scrivere, guardare serie TV e film, e partecipare a quanti più eventi culturali possibile.

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