Intervista a Samuel Maoz: trauma e post-trauma della società israeliana

A tu per tu con il regista di "Lebanon" e "Foxtrot", premiati nel 2009 e nel 2017 alla Biennale di Venezia

Qualche tempo fa ho avuto il grande piacere di intervistare a Berlino il regista israeliano Samuel Maoz, che con “Lebanon” e “Foxtrot” (qui la recensione) è stato premiato due volte alla Mostra del cinema di Venezia – nel 2009 con il Leone d’Oro, nel 2017 con il Leone d’Argento gran premio della giuria.

Nella nostra lunga chiacchierata abbiamo toccato temi cari al regista e terribilmente attuali, che portano a riflettere sul ruolo dell’arte, sulla società contemporanea e sulla politica.

 

Innanzitutto, complimenti per i suoi bellissimi film e per i premi ricevuti.

Grazie. Ora ho due Leoni, uno d’oro e uno d’argento, e ci si sente al sicuro con due leoni accanto!

Il successo di “Foxtrot” a Venezia è stato contestato dal ministro israeliano della cultura, secondo cui il film critica troppo duramente l’esercito di Israele. Lei ha risposto che “se critichi il tuo Paese è perché lo ami e vuoi proteggerlo”. Questo mi ha fatto pensare alla situazione degli italiani all’estero come me. Anche noi critichiamo il nostro Paese proprio perché lo amiamo, e ci dispiace vederlo in difficoltà.

Mi pare che qualcuno, adesso non ricordo chi, abbia detto che i nostri sbagli saranno poi i fallimenti dei nostri figli. Credo davvero che le società abbiano bisogno di migliorarsi, e la capacità di fare autocritica è una delle chiavi per attuare questo miglioramento. Quindi sì, se critico il mio Paese non è perché sono un traditore, ma perché lo amo, mi preoccupo, perché la sua sorte mi sta a cuore.

Una scena del film “Foxtrot” di Samuel Maoz (2017)

Pensa che l’arte, nel suo caso quella cinematografica, sia un buon mezzo per portare avanti questa critica?

Noi abbiamo il privilegio di riflettere non una verità oggettiva ma una verità artistica, il che ci dà la possibilità di provocare, di creare un dibattito, che poi credo sia lo scopo finale dell’arte. La creatività artistica mi ha permesso di arricchire la realtà che volevo mostrare con delle storie e dei sentimenti… Il lutto, la perdita sono sentimenti che le persone conoscono bene. Possono immedesimarsi e pensare: “Sarebbe potuto accadere anche a me, e allora cosa avrei fatto?”. Ma sembra che in Israele la gente sia un po’ confusa e non si renda conto che il mio film non è un documentario, può deviare dalla verità oggettiva, con delle allegorie della società che non sono la rappresentazione fedele della società stessa. Ho scelto per questo di dare alla seconda sequenza di “Foxtrot”, quella dei militari nel deserto, degli elementi surreali – come il cammello. Quel posto di blocco e quella realtà non esistono davvero, e io non volevo raccontare un caso specifico, volevo mostrare l’evolvere di una situazione che piano piano sprofonda, come il container dove vivono i quattro soldati. Volevo trasmettere un messaggio, non una realtà oggettiva.

“Foxtrot” mi ha trasmesso l’idea che siamo impotenti di fronte al destino – non importa quanto lottiamo per far andare le cose come desideriamo, il fato vincerà sempre. Come accade al ragazzo del film: tutti lo credevano morto, non lo era, ma nel tentativo di salvarlo poi è morto davvero. Come se il destino del ragazzo fosse fin dall’inizio di morire, insomma. 

Ma il ragazzo ha anche pagato per i peccati del padre. Perché il padre anni prima avrebbe dovuto morire e se l’è cavata mandando qualcun altro, e ha vissuto tutta la vita con il timore di venire scoperto. Ogni spettatore può dare la sua interpretazione al film, ma per me il messaggio principale che riguarda la nostra società è che forse il fato non può essere cambiato, non perché sia divino, ma per la natura traumatica che modella la politica israeliana. E la politica resta bloccata nel trauma.

Una scena di “Foxtrot” di Samuel Maoz (2017)

Quindi il trauma della società è anche il trauma dell’individuo.

Certo, la società è il prodotto degli individui, non un elemento esterno. Il mio primo film è stato “Lebanon”, e raccontava la mia esperienza personale da soldato in guerra, era il mio punto di vista su un evento che mi ha provocato molta sofferenza. Il trauma della guerra me lo portavo dentro nella vita di tutti i giorni, e sono sicuro che sia la ragione per cui ho realizzato il mio primo film solo a 48 anni e non prima. Ma dopo l’uscita del film ho visto che non ero solo, perché la società israeliana produce molte persone con il mio stesso trauma, e allora ho capito improvvisamente perché ci comportiamo come ci comportiamo, perché pensiamo di essere ancora in uno stato di pericolo in cui non siamo: perché la società israeliana è una società traumatica, che non è ancora uscita dai grandi traumi del passato, dall’Olocausto alle guerre di sopravvivenza. Questo trauma emozionale è più forte di ogni logica moderna – non mi fraintenda, non sto giustificando la politica israeliana, sto solo analizzando la società. Quindi in “Lebanon” ho parlato del trauma, in “Foxtrot” del post-trauma: come un vecchio ballo che ogni generazione cerca di ballare come può per mandare avanti la società, ma il Foxtrot la riporta sempre al punto di partenza.

Secondo lei non c’è cura per questo stato post-traumatico?

Vede, nel film Michael ha venduto l’antica Bibbia di famiglia per comprarsi un giornaletto, voleva scegliere la normalità, voleva scegliere la vita. Quella Bibbia era rilevante in un’altra epoca, adesso è ora che la religione sia trattata come elemento culturale, non politico, non nazionale. Il passo che può salvarci dal ripetersi continuo del Foxtrot deve essere fatto dai leader politici. Ma continuano con i soliti discorsi sul dover rinforzare le nostre difese. Qualche giorno fa ho sentito qualcuno che diceva: “Siamo una superpotenza tecnologica e abbiamo un esercito fortissimo, perché siamo in pericolo per la nostra esistenza”. Per me era come se qualcuno dicesse: sono giovane, forte e sano perché sono malato. La critica mossa al mio film dal ministro della cultura, prima ancora di averlo guardato, mostra che la lotta adesso in Israele è per valori di base come la libertà di espressione. Ed ha aiutato a sviluppare proprio il dibattito a cui il film mirava. È tempo di lasciar andare il trauma del passato e concentrarsi sui problemi concreti del presente, per migliorare la società in cui viviamo e perché ne abbiamo i mezzi – e i problemi sono tanti, dalla disoccupazione alla fame.

Una scena del film “Lebanon” di Samuel Maoz (2009)

E pensa che il dibattito coinvolga solo gli intellettuali israeliani che come lei credono che sia tempo di cambiare o anche la società nel suo complesso?

Non solo intellettuali, penso che tutti i cittadini che vogliono un futuro migliore condividano il mio punto di vista. Purtroppo la priorità del governo è ancora la sicurezza e la nostra società è divisa in due, come quelle di tanti altri Paesi al momento, dalla Gran Bretagna post-Brexit agli Stati Uniti.

In ultimo, vorrei chiederle se ha già un’idea per un prossimo film e se questo continuerà il percorso di guarigione da trauma e post-trauma iniziato dai due precedenti.

No, posso annunciare ufficialmente che ho finito con i militari! Il prossimo progetto è ancora in fase embrionale, ma tratterà di emozioni universali, attraverso la storia di una madre e di una figlia, che non sono legate necessariamente a un Paese e a una società in particolare.

Aspetto di vederlo allora! E grazie ancora per l’intervista.

 

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Valeria Lotti
Originaria della provincia di Roma, vive tra l'Europa e la Cina, coltivando la sua passione per lo studio di società e culture. Dottoranda a Berlino, ama scrivere di cinema, viaggi e letteratura. Si ritiene democratica e aperta alla critica, purché non sia rivolta ai libri di Harry Potter.

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