Intervista al regista Gianni Zanasi

Alla rassegna londinese Cinema made in Italy ha presentato il suo ultimo lavoro, "Troppa grazia"

Nella seconda giornata di Cinema Made in Italy, il festival che porta il meglio del cinema italiano dell’ultimo anno a Londra, è stato presentato “Troppa grazia” di Gianni Zanasi, con Alba Rohrwacher e Elio Germano.

Con la comicità che lo contraddistingue, Zanasi regala al pubblico una vera chicca cinematografica, che guarda con ironia alla mancanza di meraviglia nel mondo di oggi. Giocato su antitesi quasi farsesche, tra il sacro e il profano, tra il giusto e l’ingiusto, il film è un viaggio dentro la fatica dello stare al mondo, soprattutto quando si cerca di rimanere fedeli a sé stessi in ogni circostanza.

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Ma cosa si nasconde dietro a questa ironia? Che tipo di lavoro serve, per realizzare una pellicola così fuori dagli schemi? Ho fatto queste e altre domande a Gianni Zanasi, interlocutore piacevolissimo e ben disposto, durante la nostra intervista.

 

Vorrei cominciare con una domanda su un aspetto del suo cinema che mi incuriosisce molto.

Va bene!

Nei suoi film affronta temi sociali e valori umani come la fiducia nell’altro e il senso di responsabilità, mantenendo sempre toni ironici, tipici della commedia. Come mai ha scelto questo genere per raccontare le sue storie? E quali sono i suoi modelli di riferimento?

Intanto, è un fatto istintivo che non viene da un ragionamento, ossia non penso a fare una commedia per alleggerire il contenuto dei miei film oppure per rendermi più accattivante al pubblico, né tantomeno decido quando essere più impegnato socialmente. No, personalmente vado a istinto e, per una mia forma naturale, l’ironia mi è sempre stata molto vicina. La considero però un’arma a doppio taglio. Da una parte può creare una distanza da qualcosa che spaventa, anche se mi auguro che non crei questo effetto nei miei film. Dall’altra parte, l’ironia permette come di rigirare continuamente le cose, senza rimanere fermi alla prima impressione, al primo aspetto dell’immediatamente visibile che spesso ha a che fare con stereotipi e luoghi comuni di cui noi naturalmente ci nutriamo. La risata è una scarica elettrica improvvisa, che rivela i luoghi comuni e le finzioni, e proprio per questo mi attrae, in modo naturale. Penso che sia un modo per andare oltre alle apparenze e, almeno per me, anche un modo per liberare il racconto dai preconcetti.

Che cosa intende per “liberare il racconto dai preconcetti”?

Mi spiego, spesso siamo abituati a certi generi un po’ solidificati, un po’ induriti come certe arterie anziane, tipo che si deve per forza far coincidere il film d’autore con il concetto di spessore o con il concetto di sofferenza. Oppure siamo abituati a un certo tipo di commedia, in cui bisogna per forza ridere in certi momenti, in certi punti, e in cui si deve mantenere un certo ritmo. A me tutto questo sembra una grossa stupidaggine. Se le cosse stessero davvero così non ci sarebbe stato Checov o gran parte di Shakespeare. Poi, va tutto bene, a me il cinema piace perché è vario, e mi piace pensare che come tutte le cose importanti della vita, ognuno può fare cinema come vuole. A me però piace utilizzare l’ironia, la risata, per liberare il racconto da tutte queste rigidità, e quindi liberare i personaggi andando insieme a loro a vedere cosa succede sotto, al di là di quello che succede in superficie, e quindi in un certo senso la mia aspirazione è anche quella di liberare lo spettatore dal “prestabilito.”

Parlando appunto di anti-convenzionalità, ho trovato divertente e anche singolare l’idea di accostare un personaggio come Lucia a una Madonna molto arrabbiata e anche molto fisica. Da dov’è nata questa idea?

Be’, anche questa scelta, come ho detto prima per l’idea dietro al film, non ha una spiegazione logica. Non c’è dietro un ragionamento sociologico o una scelta ragionata di fare un film al femminile, che tra l’altro oggi va abbastanza di moda, né di parlare della condizione della donna in generale. Quando provo a ragionare così, dopo poche ore, non riesco più a scrivere, mentre quando mi arriva un’idea, quasi come un’apparizione, quello è il momento in cui inizia qualcosa. In questo caso, quando ho immaginato Lucia, mi sono sentito istintivamente vicino a questa giovane donna e sentivo che era un tipo un po’ particolare. Lucia risponde alle regole sociali, anche perché ha una figlia e quindi deve essere responsabile, però fatica a stare dentro a tutti i parametri sociali. Questo aspetto di Lucia mi faceva simpatia, mi ha fatto sentire molto vicino a lei. Poi, quando ho improvvisamente immaginato una cosa che le dice “vai dagli uomini” allora non ci potevo credere. Ho riso e da questa risata, dal desiderio di approfondirla, è nato il film. Mentre scrivevo sentivo che questa risata avrebbe potuto trasformarsi in una sit-comedy molto spassosa, con definizioni nette, ossia una donna concreta, vera, che incontra la Madonna. Però poi ho sentito che dietro questa risata c’era qualcosa di più profondo, anche legato alla mia infanzia.

Posso chiederle in che modo questa tematica è legata alla sua infanzia?

Io non sono credente, però ancora ricordo mia nonna che da piccolo mi portava, l’estate, a fare passeggiate nel cortile vicino casa, dove c’era una Madonnina illuminata da una luce blu al neon. Ricordo che la mia emozione davanti a questa immagine non era un’emozione religiosa, per me quella statua poteva anche rappresentare Batman, ma piuttosto la rivelazione di qualcosa di magico, la percezione che la magia esistesse. E credo che questa sia stata una folgorazione, di quelle che capitano durante l’infanzia ma che molto spesso, crescendo, smarriamo. È giusto crescere e diventare più stratificati, più strutturati, ma allo stesso tempo siamo perduti se ci convinciamo che crescere significhi non credere più che la vita abbia qualcosa di magico e misterioso.

Come si ricollega il personaggio di Lucia a queste riflessioni?

Be’ Lucia, per le tante difficoltà economiche, ha messo da parte la sua parte creativa, la capacità di innamorarsi e di vedere cose che non ci sono. Questa parte, che potremmo definire “infantile”, è stata per così tanto tempo repressa dentro di lei che a un certo punto ritorna potente, in uno sdoppiamento schizofrenico, prendendo le sembianze di una Madonna molto arrabbiata con lei perché sta buttando via la sua vita e sta tradendo anche un rapporto intimo che aveva con la sua terra. Il campo dove Lucia fa le misurazioni è quello della sua infanzia che lei tradisce, perché accetta di chiudere un occhio, per disperazione e bisogno economico, sulle misurazioni per una speculazione edilizia abbastanza truffaldina. È proprio a quel punto che appare la Madonna. Il fatto che sia proprio la Madonna per me ha in parte a che fare con l’infanzia ma allo stesso tempo incarna un imperativo tragicamente inesorabile, cioè il bisogno di ritornare ai fondamentali, la differenza tra verità e menzogna, tra giustizia e ingiustizia, e credo che oggi, per noi adulti, confrontarsi in modo netto e scomodo con questi fondamentali sia un richiamo etico pesantissimo.

Infatti, oggi giorno, c’è poco spazio per questi valori e le persone sembrano più interessate a trovare vie di mezzo o scorciatoie…

Sì, e questo poi diventa un modo poco serio di affrontare la vita.

Gianni Zanasi con Alba Rohrwacher e Hadas Yaron sul set del film “Troppa grazia”.

Parliamo un attimo del ruolo degli attori in questa storia. In passato li ha definiti “coautori” del film, quindi le chiedo: quanto dei personaggi si deve a lei e alla sua idea di partenza e quanto a loro?

Mah guarda, se volessimo dare una percentuale, quasi tutto quello che viene detto nel film era scritto nel copione. La sensazione di improvvisato che si prova guardandolo deriva dal fatto che per me le cose non sono immobili e mi piace vivere, sia come spettatore che come regista, la sensazione che quello che si vede nel film stia succedendo proprio in quel momento perché questo è un po’ quello che ci succede nella vita. Penso però che i film, come le cose più belle della vita, non si facciano da soli e questo per me non è una frustrazione ma una gioia perché mi piace moltissimo lavorare con gli altri, anche se devi essere molto bravo a scegliere le persone giuste, e devi avere anche un po’ di fortuna. Nel caso di questo film, Alba, Elio e Hadas, ma anche tutti gli altri, li considero anche coautori perché non penso che un attore sia uno che viene lì ed esegue, in modo tecnicamente perfetto, quello che ho scritto. Per me questo è un modo sterile di lavorare. Per me è interessante quando il personaggio incontra l’attore e allora l’attore scrive con il suo corpo, con le sue parole, i suoi silenzi e la verità delle emozioni che riesce a trasmettere. Quindi, se non avessi lavorato con questi attori ma con altri credo che sarebbe stato un film completamente diverso che probabilmente a me non sarebbe piaciuto.

Prima di lasciarci, dopo “Troppa grazia” ha già qualche altro progetto in cantiere?

Sì sto lavorando a una cosa, ma siamo ai primi mesi e quindi preferisco non parlarne ancora.

Allora ci fermiamo qui. Grazie mille a Guido Zanasi per il suo tempo e la sua disponibilità.

Grazie a te!

 

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Federica Gamberini
Bolognese di nascita, cittadina del mondo per scelta, rifugge la sedentarietà muovendosi tra l’Inghilterra (dove vive e studia da anni), la Cina, l’Italia e altre nazioni europee. Amante della lasagna bolognese, si oppone fermamente alla visione progressista che ne ha la signorina Lotti, che vorrebbe l’aggiunta della mozzarella. Appassionata di storie, nel tempo libero ama leggere, scrivere, guardare serie TV e film, e partecipare a quanti più eventi culturali possibile.

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