Intervista al regista Roberto Minervini

Il cinema-vita, il rapporto con gli Stati Uniti, patria di adozione, l'esperienza al Festival di Londra

Siamo nella seconda settimana, e il London Film Festival entra nel vivo. Da bravi sportivi della scrivania che non dormono mai, anche noi giornalisti siamo pronti per affrontare le ultime giornate fatte di eventi e anteprime imperdibili che, alla fine, perdiamo puntualmente, visti gli orari che mettono a dura prova anche i più determinati e mattinieri.

Con questo cipiglio polemico, da persona in deficit di sonno, mi avvio anche oggi al luogo del festival che preferisco: il May Fair Hotel. La sala dedicata agli afternoon tea con registi e attori è un tripudio di cibo, dai poco invitanti sandwich all’inglese fino ai più che invitanti tortini caldi di cioccolato.

Purtroppo la mia dieta fatta solo di interviste e film mi proibisce di avventarmi sul buffet per preparami invece al primo incontro della giornata. Poso il cappotto, sistemo i miei inseparabili taccuino e registratore sul tavolo, pronta ad accogliere Roberto Minervini, acclamato regista del documentario “What you gonna do when the world’s on fire?”.

Mi appresto a rileggermi alcune domande ma è troppo tardi: Roberto è arrivato, elegante ma sportivo, e io comincio subito.

 

Ciao Roberto.

Ciao Federica.

Innanzitutto congratulazioni per il film, candidato come migliore documentario al BFI e vincitore morale alla Biennale di Venezia. La mia prima domanda è molto generale. Quali sono le tue aspettative nel portare il tuo lavoro a Londra, una città con una multiculturalità tutta sua, e cosa speri di lasciare al pubblico del festival?

Be’ innanzitutto non è un caso che questo film abbia un titolo che è poi una domanda, ovvero che cosa fai quando il mondo è in fiamme? Questa è una domanda che proviene dalla tradizione gospel americana però, ciò che a me interessa, è il fatto che la risposta non può essere univoca perché dipende da chi risponde. La società dei bianchi, quando il mondo è in fiamme, attende i soccorsi che arrivano mentre quella dei neri o delle minoranze etniche o dei non bianchi normalmente o brucia o corre ai ripari attendendo dei soccorsi che non arrivano mai. Questo vale sia in America che in Inghilterra ma anche in Italia. Quindi quello che per me è importante, ma che non esprime la mia agenda politica, è che il film spingesse a fare una riflessione sul fatto che le cose in qualsiasi società del mondo viaggiano a diverse velocità, quindi le lotte di classe e di razza non possono fermarsi alla mera indignazione. Questo è quanto si dovrebbe evincere e in Inghilterra penso che il discorso sia per certi versi simile a quello americano.

Un frame del documentario “What you gonna do when the world’s on fire?” di Minervini.

Infatti, nonostante la sua multiculturalità, anche a Londra ci sono differenze tra chi vive a Nord e chi vive a Sud, per esempio…

Proprio in questi giorni stavo pensando, mentre scrivevo un articolo, che il black face, questa rappresentazione satirica, o meglio, politica del nero impersonato da un bianco con la faccia dipinta di carbone, svanì in America con la lotta per i diritti civili degli anni sessanta, mentre la BBC continuò a mandare in onda uno show sulla black face, intitolato “The Black and White Minstrel”, fino al 1978. Questo per dire che America e Inghilterra non sono poi così lontane!

Parlando dell’America, ti sei formato come regista proprio in questo paese, ma quello che mi interessa è capire come sei passato da studiare regia a New York a sviluppare un interesse da documentarista per la società americana, sia in questo film che nel tuo lavoro precedente.

L’America è il paese in cui vivo per cui per me la prerogativa è raccontare storie che mi toccano da vicino. Ho scelto di vivere nel Sud degli Stati Uniti, nella fattispecie in Texas, proprio perché è un po’ come avere i migliori posti a sedere alla Scala di Milano. Dal Texas osservo tutti e ascolto tutti i suoni che provengono dai vari strumenti. A venti minuti da casa mia trovo gli estremisti di destra, a trenta minuti a Nord trovo i fondamentalisti religiosi e, a dieci minuti, ci sono i ghetti statisticamente pericolosissimi, ma che io oggi frequento liberamente. Racconto le realtà che mi toccano da vicino, alle quali io mi sento d’appartenere e alle quali aggiungo il mio bagaglio culturale, che viene dall’Italia, e un certo senso di tumulto che mi porto dentro, un po’ per fortuna un po’ per disgrazia, e che si legge attraverso i miei lavori.

Questa tua risposta riflette molto la tua idea di cinema-vita, questo vivere nel film che crei…

In effetti la vita viene prima del cinema perché io non mi prefiggo nessun obbiettivo o risultato nei film che faccio. È il percorso che intraprendo che mi interessa e il film deve riflettere quel percorso, deve essere uno specchio del percorso che può essere o meno fallimentare. Ma ciò non mi interessa perché i miei film sono unicamente uno specchio onesto di quello che è stato il mio percorso e le mie riflessioni. Se fino ad adesso, almeno negli ultimi film, le cose stanno ricevendo un certo apprezzamento probabilmente dipende dal fatto che questi percorsi che sto intraprendendo toccano da vicino le persone.

Un frame del documentario “Louisiana (the other side” di Minervini.

Parlando appunto di percorso, a Venezia hai raccontato che questo film nasce dall’interesse di esplorare le radici della cultura afroamericana a partire dalla musica, poi però tu arrivi nel bar di Judy Hill e questo incontro cambia il tuo approccio verso il tema. Mi chiedevo, cosa c’è stato di così importante nel tuo incontro con Judy tanto da far cambiare direzione e approccio al film?

Ho conosciuto Judy Hill nel suo bar, Ooh Poo Pah Doo, che prende il nome da una canzone che ebbe un successo strepitoso negli anni ’50 scritta dal papà, Jesse Hill. La sua è una famiglia di musicisti, che però vivono in miseria – un leit motiv che si ripropone nelle storie dei musicisti neri di New Orleans che hanno fatto la storia musicale del jazz blues. Sono andato quindi a scavare nelle dinamiche familiari di Judy, nel loro aver perso tutto semplicemente perché, pur essendo talentuosi, non sono stati capaci di gestire il sistema musicale. Ho conosciuto una famiglia di talento vittima di giochi di poteri, come tantissimi altre famiglie, spinta all’autodistruzione. Questi sono discorsi che facevamo già prima in maniera costante, ma incontrando Judy ho capito che la necessità era di andare ben oltre l’aspetto musicale perché con quello non potevo raggiungere l’essenza di questa relazione così malsana e traditrice che esiste tra l’America nera e le istituzioni. Incontrare Judy mi ha fatto capire che per me era necessario partire dal basso, un approccio bottom-up, per far emergere le storie delle persone piuttosto che un approccio top-down, ossia partendo dal prodotto di una cultura, la musica, per poi arrivare alle storie.

Approfondendo un attimo l’idea del cinema come percorso e del cinema-vita, in che modo il rapporto con la tua troupe ti aiuta nella realizzazione dei tuoi film?

Innanzitutto, i membri della troupe sono degli amici che conosco da anni. Naturalmente ci sono dei prerequisiti, ossia una visione comune o una condivisione di intenti, bisogna essere persone politicamente e ideologicamente vive, capaci di mettersi in discussioni. Infatti, il piccolo gruppo di collaboratori con cui ho lavorato è fatto di gente dotata di una grande empatia con la storia perché appartiene al loro background. Per esempio, con Diego Romero condivido i compiti della macchina da presa ma lavoro anche per abbattere quei canoni di regole non scritte del cinema su cosa si può fare e cosa non si può fare. Ci si mette molto in gioco e lo si fa da anni. Abbiamo lavorato anche con altre persone, però si sono persi per strada perché mancava una profondità negli intenti comuni. Stiamo cercando di elaborare questa formula del cinema-vita perché queste due parole diventino sinonimi, anche tecnicamente parlando. Ci chiediamo sempre cosa possiamo fare per scorporare il cinema mantenendo una forma che è appunto il nostro linguaggio nel raccontare le storie. Insomma, parliamo sempre di come ridurre l’incidenza del cinema sul cinema.

Quindi siete al lavoro su nuovi progetti, anche adesso?

Delle idee ci sono sempre, molte poi non le realizziamo anche perché il rischio, con i nostri progetti, è che partano senza avere di base una preparazione e questo mette in difficoltà i finanziatori. Infatti partiamo sempre con finanziamenti parziali perché quando si sente un film è ora di girarlo. Quindi, progetti ce ne sono, ma non sappiamo ancora la fattibilità, purtroppo ci vogliono i soldi e poi i miei film non sono mai delle passeggiate di salute!

Grazie mille per il tuo tempo.

Grazie a te, ciao!

 

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Federica Gamberini
Bolognese di nascita, cittadina del mondo per scelta, rifugge la sedentarietà muovendosi tra l’Inghilterra (dove vive e studia da anni), la Cina, l’Italia e altre nazioni europee. Amante della lasagna bolognese, si oppone fermamente alla visione progressista che ne ha la signorina Lotti, che vorrebbe l’aggiunta della mozzarella. Appassionata di storie, nel tempo libero ama leggere, scrivere, guardare serie TV e film, e partecipare a quanti più eventi culturali possibile.

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