Intervista al regista Valerio Mieli

Alla rassegna londinese Cinema made in Italy ha presentato il suo ultimo film, "Ricordi?"

Dopo un inizio dedicato ai sentimenti collettivi della società italiana, Cinema made in Italy, il festival che porta il meglio della cinematografia di casa nostra dell’ultimo anno a Londra, ha cambiato rotta, volgendo lo sguardo verso l’interiorità, l’esperienza emotiva del singolo nel suo rapporto con gli altri.

Valerio Mieli ha presentato il suo secondo lungometraggio, “Ricordi?”, in cui il linguaggio cinematografico incontra quello letterario per un risultato davvero molto originale. Il film appassiona e coinvolge, grazie a una recitazione brillante ed equilibrata e alla capacità del regista di comunicare riflessioni difficili con grande immediatezza e ricchezza espressiva.

Incontro Mieli nell’ampia sala conferenze dell’Istituto di Cultura Francese di Londra, al termine della proiezione e dell’incontro con il pubblico. Ho solo quindici minuti per conoscere meglio lo sguardo e le idee che si celano dietro a “Ricordi?” per cui, dopo aver fatto le dovute presentazioni, ci accomodiamo e cominciamo subito la nostra intervista.

 

Ciao Valerio, grazie per essere qui con noi.

Buongiorno.

Volevo partire dal tuo percorso come regista. Ti laurei a Roma in Filosofia, poi ti sposti a New York, fai un dottorato in Piemonte, durante il quale entri al laboratorio sperimentale di cinema. Come sei arrivato alla scelta di fare il regista?

Fare il regista era un desiderio che ho sempre avuto. Ho scoperto il cinema d’autore a sedici, diciassette anni, insieme alla fotografia. In un certo senso, ho cominciato a fare fotografia e poi dalla fotografia ho iniziato a fare cinema. Però, quando si è trattato di iniziare l’università, non ho proprio pensato a studiare cinema, in parte perché volevo prima capire delle cose, nel senso che per fare cinema non si deve solo avere gli strumenti ma si deve anche avere qualcosa di cui parlare, ci deve essere qualcosa da mettere dentro a un film. In parte, io non conoscevo nessuno che lavorasse nel cinema e quindi, a quel tempo, mi sembrava un’idea molto lontana, che ho un po’ messo da parte per dedicarmi alla filosofia. Credo che poi a un certo punto questi due aspetti di me si siano rimessi insieme da soli, un po’ come i personaggi di “Dieci inverni”, nel momento in cui mi sono accorto che fare un dottorato non era quello che volevo davvero. Quindi ho provato una strada un po’ rischiosa, perché ero già grande, e ho fatto domanda per entrare al centro sperimentale. Essendo un corso molto selettivo, che ammette solo sei persone, l’essere stato accettato mi ha dato la forza di intraprendere la carriera registica.

Di “Ricordi?” mi è piaciuto moltissimo il viaggio in soggettiva dentro alle emozioni dei personaggi, tanto che non si sa quello che accade davvero perché tutto è filtrato attraverso il loro punto di vista. Qual è stata la reazione del pubblico di fronte a questo modo così particolare di raccontare una storia d’amore?

Devo dire che il pubblico mi ha stupito positivamente. Avevo il timore che il film fosse troppo strano, troppo difficile, anche poco riuscito, che non arrivasse. Però invece è arrivato, e se l’ha fatto è perché la mia speranza che questa struttura per certi versi sperimentale non andasse contro le emozioni ma, al contrario, toccasse corde più profonde, in modo più diretto, si è realizzata. Se il gioco narrativo funziona il film dovrebbe parlare direttamente al pubblico, perché quello che si vede assomiglia a quello che succede normalmente, per esempio quando vediamo una persona che ce ne ricorda un’altra subito ci appare l’immagine dell’altra. Mi è sembrato che il gioco finora abbia funzionato e, anche se il film non è ancora uscito in Italia (arriverà nelle sale il 21 marzo, ndr), ho visto molte persone commosse, molto coinvolte, e questa cosa mi ha fatto molto piacere, perché era un film rischioso. Anche il fatto che abbiamo vinto il premio del pubblico a Venezia, una cosa inaspettata, mi ha fatto molto piacere.

I tuoi primi due film raccontano entrambi una storia d’amore. Come mai l’interesse per questo tema?

Anche io mi sono chiesto perché abbia girato due film basati su storie d’amore, visto che l’amore non è un argomento al quale sono particolarmente interessato. Interrogandomi sul perché, soprattutto in relazione a “Ricordi?”, mi sono accorto che quello che mi interessa è raccontare i mondi interiori delle persone, non tanto cosa succede loro ma come vivono le varie situazioni dal di dentro. Tant’è vero che per questo film ho deciso di raccontare la storia usando proprio i ricordi che secondo me permettono di amplificare ancora di più i sentimenti grazie alla distanza dal fatto accaduto, rendendo ancora più soggettiva la percezione del presente. I mondi dei personaggi in “Ricordi?” sembrano essere mondi non comunicanti che però, alla fine, riescono a incontrarsi. La cosa bella è che negli incontri tra le persone, in particolare quelli amorosi che hanno la forza di essere molto puri, in senso chimico, due persone che non si sono mai viste in un tempo abbastanza breve diventano intime fino a che questi due mondi interiori si impattano l’uno con l’altro. Questo è proprio quello che succede nel film, un’osmosi tra due mondi interiori, il mondo di lei influenza il mondo di lui che diventa più leggero mentre il mondo di lui impatta il mondo di lei. Penso che sia questo l’aspetto che mi interessa di più del modello storia d’amore.

Però anche in una storia d’amicizia possiamo trovare aspetti simili alla storia d’amore…

Naturalmente questo discorso si può fare anche per una storia d’amicizia, però è più complicato lavorare sull’amicizia, perché se da un lato permette di fare altre cose non ha però quella semplicità e quella potenza propria della storia d’amore. L’amicizia forse è qualcosa di più profondo ma, per questo tipo di storia che ho scelto di raccontare in “Ricordi?”, l’amore era un sentimento più potente.

Parlando proprio della tua scelta narrativa, tu precedentemente hai parlato di come nel cinema manchi una narrativa che parta dal mondo interiore, mentre la letteratura abbonda di storie narrate dal punto di vista interiore del personaggio…

La sfida del film era proprio questa, cercare di vedere se una cosa che normalmente ci viene detta, cioè che il cinema deve raccontare i fatti esterni e la letteratura quelli interni, potesse essere ribaltata. Nella letteratura è normale vedere la storia raccontata dal punto di vista dei personaggi, ma questa cosa normalmente è proprio quello che non si deve fare quando si scrive una sceneggiatura, tanto che se un’esordiente scrive una sceneggiatura così viene subito fermato dal professore. Nella sceneggiatura bisogna costruire delle azioni e sono loro a raccontare l’interiorità del personaggio, e questo c’è anche nel mio film. Però io mi sono chiesto: Si può riuscire ad utilizzare di più le immagini e i suoni? Perché poi i ricordi sono fatti sì di parole, ma sono anche largamente fatti di immagini. Il nostro mondo interiore è fatto di immagini per cui secondo me è un peccato non cercare di raccontare questo mondo attraverso il cinema.

Il film colpisce anche per l’incredibile bravura degli attori protagonisti, Luca Marinelli e Linda Caridi, che si muovono attraverso situazioni emotive completamente diverse. Ecco mi chiedevo cosa ti ha colpito di questi attori, tanto da sceglierli come tuoi protagonisti?

La prima parte della tua domanda risponde in parte alla domanda stessa, ovvero non sono così tanti gli attori molto bravi. Poi, Luca e Linda sono anche persone con cui io ho un’affinità, come l’ho avuta anche con Isabella Aragonesi e Michele Riondino. Sono persone con cui sono riuscito ad avere un rapporto fuori dal lavoro e questo per me è molto importante. Mentre tante cose si possono fingere, penso che una certa intelligenza, un certo acume e una certa ironia siano caratteristiche che appartengono all’attore e che si portano anche dentro al personaggio. Sono cose difficili da creare. Quindi ho scelto Luca perché, innanzitutto, l’avevo già in testa da tanto tempo, sin dalla prima volta che l’ho visto lavorare nella “Solitudine dei numeri primi”. Poi Luca era giusto per questo ruolo di tormentato ma che doveva anche essere leggero, un ruolo in cui mi ci riconosco un po’, visto che il personaggio maschile è un personaggio in cui ci ho messo un po’ più di me. Mentre Linda l’ho scelta perché, tra i tanti provini che ho fatto, era quella che, anche come tecnica, mi è sembrata più adatta al film. Sapeva fare quello di cui avevo bisogno, ossia fare la stessa scena in versioni diverse, nel ricordo di Lui e nel ricordo di Lei, cambiando tono senza esagerare, senza diventare troppo.

E invece, parlando proprio di ricordi, ce n’è uno legato alla lavorazione di questo film che ti porterai dietro?

Un ricordo non lo so, è un po’ presto. Sono sommerso dalle emozioni, non ho ancora una risposta a questa domanda.

Grazie mille per essere stato qui con noi.

Grazie a te!

 

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