Intervista alla regista e scrittrice cinese Xiaolu Guo

Al BFI London Film Festival 2018 presenta il documentario "Five Men and a Caravaggio"

Non di soli personaggi conosciuti al grande pubblico, sono fatti i Festival cinematografici. E il bello di seguire il BFI London Film Festival come inviata è anche la possibilità di parlare con volti poco noti, esordienti o quasi ma di grande talento e prospettiva.

Agli amanti di cinema di casa nostra il nome Xiaolu Guo potrebbe dire ben poco, ma chi si occupa di letteratura cinese contemporanea saprà che si tratta di una delle più importanti scrittrici cinesi del momento, autrice di successi come “Venti frammenti di gioventù vorace” e “La Cina sono io!”.

Nel mondo del cinema arriva con le sue sole forze nel 2003, con il documentario “Vicino e lontano” (Far and Near). A questo seguono una serie di lavori autofinanziati che la portano a partecipare a Festival internazionali come quello di Venezia e quello di Londra e a imporsi come documentarista.

La personalità della regista e scrittrice, il suo essere sempre in movimento anche mentalmente, traspare anche durante la nostra chiacchierata in occasione dell’ultimo Afternoon Tea. Xiaolu Guo mi saluta e si precipita al tavolo, con fare scoppiettante. Mentre ci prepariamo all’intervista, parliamo del più e del meno, soprattutto dei suoi libri – di cui sono un’avida lettrice.

Il tempo di prendere una tazza di tè e qualche pasticcino e cominciamo a parlare di “Five Men and a Caravaggio”, del suo modo di fare film e del suo linguaggio artistico così unico e fuori dagli schemi.

 

Buon pomeriggio Xialou, e grazie per essere qui con noi.

Ciao a tutti, è un piacere essere qui.

Il film debutta stasera al BFI. Che cosa ti aspetti dal pubblico e che cosa deve aspettarsi il pubblico dal tuo documentario?

Accidenti, che domanda difficile. Il mio film è un film molto tranquillo, molto intellettuale, che esplora il processo di riproduzione di un capolavoro di Caravaggio dall’interno di un laboratorio cinese fino al suo acquisto a Londra. È una riflessione sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e su come guardare alla riproduzione di questo quadro per mano dei lavoratori cinesi. Il fatto che ci siano delle differenze nel modo in cui uno stesso quadro viene riprodotto nella stessa città cinese è per me molto affascinante, però non so come il pubblico potrà ricevere il mio film. Stiamo a vedere.

Parlando dell’idea del documentario, da dove nasce l’interesse nell’esplorare la riproduzione di un’opera d’arte, e il suo viaggio dalla Cina fino in Europa?

È una domanda molto interessante perché sono incuriosita da vari aspetti di questa connessione tra la Cina e il resto del mondo rispetto a una stessa opera d’arte. Prima di tutto, l’artigianato cinese è una cosa che mi affascina molto, è un’arte molto antica ma che oggi, in Cina, varia tra lavori di bassa qualità, come le riproduzioni di oggetti di grandi marchi, e lavori di ottima qualità. Poi, conosco un villaggio in Cina dove tutti, dal contadino all’operaio, riproducono lavori di epoca rinascimentale e la cosa divertente è che so di per certo che le loro riproduzioni sono poi comprate da italiani, francesi e americani che le mettono in mostra nei loro soggiorni. Trovo divertente questo fatto che la stessa riproduzione venga consumata in modo diverso in posti diversi e che persone diverse abbiamo reazioni differenti di fronte alla stessa immagine, che però alla fine non è più la stessa immagine che si guarda e questo mette in discussione proprio la nostra stessa idea di autenticità. Come può esserci autenticità quando la lettura di un’opera d’arte è così soggettiva?

C’è un motivo particolare per cui hai scelto proprio questo quadro di Caravaggio (“San Giovanni Battista nel deserto” ndr)?

È stato un caso. Il poeta italo-svizzero che si vede nel documentario comprò il quadro per il suo compleanno e, una volta, mi accorsi che questo quadro veniva proprio dal villaggio di cui ti parlavo prima. Mi sono detta, che strana coincidenza! Questo mi ha spinto a tornare nel villaggio a cercare chi aveva realizzato la copia ma, non trovandolo, l’ho fatta rifare a un altro artigiano senza però suggerire nel film che l’artigiano ripreso fosse l’artigiano originale. Del quadro mi ha colpito anche il modo meno drammatico e religioso con cui Caravaggio rappresenta San Giovanni. Il quadro nel complesso suggerisce un’idea di gioventù malinconica, che si rispecchia un po’ nei protagonisti del mio film.

Parlando di questa internazionalità dei tuoi protagonisti, nel film spesso risuona l’ombra della Brexit nel sottofondo di questo tuo viaggio tra varie culture e persone. È anche questa una coincidenza?

In realtà questo è il secondo film che tratta della Brexit, anche se in questo film non è il tema principale. La cosa divertente è che quando ho iniziato a girare questo documentario, tutti gli artisti europei che vivono a Londra e che sono nel film, hanno cominciato a chiedersi se dover lasciare Londra o meno. Per gli Europei è facile andarsene, ma per me, che sono cinese e ormai sono radicata qui, lo è molto meno. Questo mi ha fatto chiedere se fosse possibile, alla mia età, lasciare Londra e andarmene in un “posto migliore” – come se esistesse un posto migliore! Questa sorta di ansia esistenziale è presente nel mio film, attraverso la Brexit, e accompagna i miei protagonisti, soprattutto perché, passati i quarant’anni, diventa difficile pensare di ricominciare in un posto nuovo. Il dipinto di Caravaggio supporta poi questo senso di inquietudine grazie a quell’idea di una giovinezza i cui parlavamo prima.

Il pubblico ti conosce come scrittrice, ma da qualche anno hai intrapreso anche la carriera di regista. Come riesci a giostrarti tra questi due ruoli artistici così diversi?

Penso che il timore di rimanere bloccata in un campo piuttosto che un altro e di perdere le possibilità racchiuse in ciascuno dei due mi spingano ciclicamente a scrivere libri e poi a realizzare film, e viceversa. Di solito, ogni tot anni, dopo che finisco di scrivere un libro, i ricavi li investo nella realizzazione dei miei film, che non hanno fondi esterni. Allo stesso tempo, quando sono ormai alla fine di un film, inizio a scrivere un nuovo libro così che sia pronto nel giro di due anni. Non è una questione di avere fretta, ma io vivo del mio lavoro. Finora fare film mi ha fatto perdere più soldi che guadagnarli, ma non me ne pento. Mi sento un’artista che ha risorse dentro di sé e per tanto non ho bisogno di molto per realizzare i suoi lavori.

Nel panorama cinematografico del festival sei sicuramente una voce con una sua unicità. Come ti descriveresti in qualità di regista?

Non lavoro come altri registi, non scrivo proposte di film e non faccio domande per fondi statali. Non credo in questo sistema, ma non per arroganza. Il fatto è che molto del mio background di regista viene dall’underground cinese, dove non è “alla moda” essere underground ma spesso vuol dire finire in prigione. Per questo, sono abituata a prendere la mia telecamera da sola e ad approcciarmi in modo intellettuale alla realizzazione dei miei film. Parto da un lavoro introspettivo su di me che poi proietto su oggetti e personaggi, creando una sorta di film d’essai.

Grazie mille per il tuo tempo e in bocca al lupo per la prima.

Grazie a te, e crepi il lupo.

 

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