Intervista a Marco Bellocchio, in corsa per gli Oscar con “Il Traditore”

Il personaggio di Tommaso Buscetta, vanitoso e poco acculturato; l'uso della luce e le scelte di regia

Dopo averlo incontrato due anni fa sempre qui a Londra, in occasione di Cinema made in Italy (qui l’intervista), è un piacere per me ritrovare Marco Bellocchio, al London Film Festival per presentare “Il traditore”.

Il film con protagonista Pierfrancesco Favino, che racconta la storia di Tommaso Buscetta, primo pentito di mafia, che permise ai giudici Falcone e Borsellino di comprendere l’organizzazione di Cosa Nostra e di portarne i capi in tribunale, è stato scelto come candidato italiano per gli Oscar 2020.

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Bellocchio si aggira per le stanze del May Fair Hotel, passando da un’intervista all’altra a un ritmo quasi frenetico. Finalmente arriva anche nella sala dove, con altri cinque giornalisti italiani, lo aspetto io, seduta come a scuola: gli allievi ai lati e il maestro al centro.

 

Sono passate poche ore dal debutto del film a New York, e i giornali parlano di pubblico in delirio. Possiamo dire che “Il traditore” è il film dei due mondi? Un film capace di parlare sia al pubblico italiano che a quello americano?

Questa è sicuramente una bella frase. Naturalmente noi ora stiamo facendo una campagna pubblicitaria, perché a seconda delle fortune del film, un regista e il suo film viaggiano di più o di meno. Devo dire che finora, nei posti dove sono stato, il film è stato molto ben accolto. Non ho ancora letto nel dettaglio la rassegna stampa di New York, però penso che la parola mafia sia abbastanza internazionale, che tocchi anche l’America da vicino. Buscetta, nello specifico, ha anche vissuto negli Stati Uniti e ha collaborato con l’FBI per il processo Pizza Connection, quindi è un personaggio conosciuto anche oltre oceano.

Parlando proprio di cinema americano, cosa ne pensa della tradizione di film sulla mafia, soprattutto su quella italiana e siciliana?

Quando vogliono fare film da americani in Italia, secondo me ci sono delle mancanze. Per esempio, ho visto un film su Buscetta e Falcone, prodotto in America e con attori americani, che non stava molto in piedi. Lo stesso capolavoro di Coppola, quando si sposta in Sicilia, diventa un po’ fragile, in parte perché vengono utilizzati degli attori che noi conosciamo, in parte perché le scene diventano talvolta inverosimili. Diciamo che, nonostante “Il Padrino” resti un capolavoro, la parte girata in Sicilia può risultare, per noi italiani, più debole rispetto al resto.

Che cosa affascina tanto, secondo lei, del personaggio di Tommaso Buscetta?

Penso che sia la sua storia ad essere affascinante, non tanto lui personalmente ma il suo percorso. A livello personale, Buscetta era un uomo intelligente ma molto ignorante, non era un uomo di cultura, uno che negli anni di prigione si era messo a leggere Leopardi o Manzoni. Buscetta aveva interessi diversi, era un grande appassionato di calcio, era un tifoso della Juventus, tanto che Agnelli una volta disse che l’essere Juventino sarebbe stata l’unica cosa di cui non avrebbe dovuto pentirsi. Di Buscetta a me interessava il percorso, un percorso di agitazione, di perplessità, di stordimento e di incertezza, ma mai nevrotico. Lui non voleva collaborare, ha tentato il suicidio pur di non andare in Italia, ha sfidato la morte pur di ritardare un confronto, a cui, in qualche modo, l’ha costretto il giudice Falcone perché a quel punto era l’unico modo di sopravvivere e di vendicarsi di Riina che gli aveva sterminato la famiglia. Era un uomo coraggioso, un uomo che non temeva la morte, però limitando la sua collaborazione, circoscrivendo le sue dichiarazioni alle vicende di mafia. Di se stesso non ha mai detto nulla, ha negato di aver trafficato droga e di aver ucciso qualcuno, anche se è improbabile perché, mi dicono gli esperti, per entrare nella mafia ci vuole una prova di sangue.

Il personaggio di Buscetta è costruito anche sulle interazioni che ha con gli altri personaggi, e tra queste colpiscono quelle con Falcone e Andreotti. Come mai ha scelto di includere un primo incontro con Andreotti all’interno della sartoria?

Quella è stata una licenza narrativa, anche se tutto ciò che viene detto nel film corrisponde al vero. Buscetta era un uomo piuttosto vanitoso, voleva abiti delle migliori sartorie, la vestaglia di seta e anche l’intimo di qualità. Era un po’ cafone da questo punto di vista. È vero che si faceva realizzare gli abiti in sartoria, e io mi sono immaginato questo incontro a Caraceti, una sartoria dove vanno i politici e gli attori per gli abiti su misura e dove andava anche Andreotti. E mi sono preso la licenza poetica di far rimanere Andreotti in mutande.

E invece, per quanto riguarda il rapporto con Falcone? È stato difficile portarlo sul grande schermo e in generale trattare un personaggio tanto importante?

Sul rapporto con Falcone c’era una specifica difficoltà, quella di non rendere il giudice il solito eroe, una specie di santino. Già nella sceneggiatura e poi dando agli attori un registro di estrema discrezione, soprattutto per Falcone, ho cercato di evitare di fare di lui una figura un po’ retorica. Fausto Russo ha dato un piglio molto minimale a Falcone, perché  Falcone è un eroe che non si vede. Buscetta combatte la mafia per sopravvivere ai criminali corleonesi; Falcone combatteva la mafie perché credeva che fosse giusto farlo, perché credeva nelle istituzioni, un fatto assolutamente contestabile. Per me un uomo così, che mette la propria vita a rischio, è ammirevole, ma nel film volevo evitare la retorica.

Il film colpisce per la grande teatralità, che si nota soprattutto nelle scene corali come quella del maxi-processo. Perché era importante, ai fini della narrazione, puntare su questo aspetto?

La teatralità parte dalla realtà. Per esempio nella scena del maxi-processo c’era veramente stupore tra i mafiosi per il fatto di trovarsi in quella specie di anfiteatro tutti insieme, non avrebbero mai immaginato di arrivare a questo perché non si era mai effettivamente arrivati a quello. Quindi, soprattutto attraverso i personaggi secondari, ho messo in scena una serie di “numeri” che non hanno lo scopo di divertire il pubblico, ma piuttosto di arenare e ostacolare il processo e mostrare, attraverso le negazioni del giudice, una ferma volontà di arrivare a sentenza da parte dello stato. Volevo dare un senso di tragico-grottesco, inserendo anche aspetti operistici, che è poi la prima forma d’arte in cui ho sperimentato.

L’uso della luce e della fotografia, che accompagnano il percorso di Buscetta da uomo in fuga a collaboratore di giustizia, rispondono a una precisa ricerca estetica?

Al cinema la luce non è tutto, ma sicuramente è molto. Il cinema somiglia un po’ alla pittura: a me piace cercare di creare un’immagine realistica ma anche espressionista, con forti contrasti, controluce. Io cerco di lavorare su di una luce di contrasto, per un fatto personale. Nel Traditore, questa fotografia contrastata era più difficile da realizzarsi, soprattutto nell’aula bunker, poiché essendo un grande spazio con una luce diffusa era difficile realizzare un’immagine fortemente contrastata, di taglio, non anonima, più realistica. Nelle scene dei delitti, invece, abbiamo cercato di creare delle immagine uniche. Nell’attentato a Falcone, per esempio, abbiamo ripreso la scena da dentro, in uno spazio scuro, con la luce che viene da fuori. Attraverso un preciso uso della luce e della fotografia, abbiamo cercato anche di unificare le scene di violenza per scandirle in modo simile, in modo sbrigativo, mai compiaciuto su particolari orripilanti.

Com’è stato girare un film tanto ricco di emozioni contrastanti? Cosa porta con sé dell’esperienza del Traditore?

Un film lascia sempre qualcosa dentro al regista. Anche se quando finisce poi te ne separi, resta sempre un legame, portato avanti anche attraverso le reazioni di chi lo ama e di chi lo odia. Durante la lavorazione, sono le preoccupazioni a predominare. Io personalmente sono sempre scontento in questa fase, perché per quanto uno possa prepararsi attraverso la scrittura poi tutto si gioca durante le riprese. Durante le riprese tu ti perdi, ti allontani dalla scrittura, per ritrovare poi tutto in fase di montaggio. Ed è lì che ti accorgi degli errori, di cosa ha funzionato e cosa no. Ma è anche quello che ti dà lo stimolo per continuare a fare questo lavoro.

 

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Federica Gamberini
Bolognese di nascita, cittadina del mondo per scelta, rifugge la sedentarietà muovendosi tra l’Inghilterra (dove vive e studia da anni), la Cina, l’Italia e altre nazioni europee. Amante della lasagna bolognese, si oppone fermamente alla visione progressista che ne ha la signorina Lotti, che vorrebbe l’aggiunta della mozzarella. Appassionata di storie, nel tempo libero ama leggere, scrivere, guardare serie TV e film, e partecipare a quanti più eventi culturali possibile.

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