“L’anima della frontiera”: la recensione del romanzo di Matteo Righetto

Il primo capitolo della "trilogia della patria", edita da Mondadori, storia epica della famiglia De Boer

Nevada: il nome fa subito venire in mente deserto e casinò. Ma siamo molto lontani dagli Stati Uniti, stavolta. Siamo in alta val Brenta, al confine tra Italia ed Austria, in una terra aspra, dove l’uomo fatica per tirare avanti.

Qui, sul finire dell’Ottocento, inizia la storia della famiglia De Boer – di Augusto, uomo taciturno e grande lavoratore, della moglie Agnese, dei figli Jole, Antonia e Sergio -, protagonista del libroL’anima della frontiera, primo capitolo della trilogia della patria di Matteo Righetto, edita da Mondadori.

I De Boer lavorano nei campi di tabacco, ma i proventi della vendita non bastano a garantire loro una vita dignitosa. Per questo il capofamiglia Augusto si da al contrabbando, intraprendendo un difficile viaggio oltre la frontiera austriaca. Quando Jole, la figlia maggiore, ha 15 anni, Augusto decide di portarla con sé. Perché qualcun altro deve conoscere la strada…

Non so a chi si debba la scelta di dividere questa storia in tre romanzi, se all’autore oppure all’editore che, diciamocelo, non è nuovo nel nostro Paese a mosse di marketing spericolate quando si tratta di pubblicazione dei libri (pensiamo solo al numero esagerato di volumi in cui è stato frazionato, rispetto all’originale americano, “Il trono di spade”).

L’anima della frontiera“, con le sue 192 pagine, ha la consistenza di un racconto, che sarebbe potutto tranquillamente stare insieme a qualcos’altro. Vedendo il numero di pagine di “L’utlima patria” (225) e “La terra promessa” (219) il pensiero che i tre libri ne avrebbero potuto formare uno solo, più corposo e lineare, mi è venuto.

Lo stile di scrittura di Righetto rimanda a quello delle ballate popolare, dell’epica, dove nonostante i molti fatti che avvengono la storia resta sempre un po’ lontana da chi legge, come se fosse proiettata su un muro, ma distante. Nonostante i personaggi siano fortemente umani, provare i loro sentimenti è molto difficile.

Il ricorso spasmodico e ripetuto alla descrizione – di usi e costumi dell’epoca, delle attività contadine, soprattutto del paesaggio e della natura -, la forte componente lirica della scrittura, non aiutano a rendere il romanzo ritmato. Si salva dal grigiore l’ultima parte, dove l’azione si impenna e arriva al punto di svolta decisivo.

Se c’è qualcosa in cui “L’anima della frontiera” riesce bene è descrivere il periodo storico, la fine dell’Ottocento, e contestualizzarlo. Attività come la coltivazione del tabacco, la pastorizia, il lavoro in miniera o in una carbonaia sono rese con dovizia di particolari, riportate quasi in vita. Così come lo sono la condizione di vita dei cosiddetti umili, i contadini, i minatori, i carbonari.

Un romanzo che col suo ritmo lento e compassato potrebbe non soddisfare tutti i lettori. Di sicuro piacerà a chi ama le ricostruzioni storiche attente e precise, le avventure dal sapore quasi western, e una narrativa che non ha paura di risultare poetica.

 

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