“L’infanzia di un capo”: l’esordio di Corbet, premiato dalla critica ma criptico

Un regista con del potenziale. Un cast degno di menzione. Un film auto-referenziale e difficile da comprendere

Un film di Brady Corbet. Con Robert Pattinson, Stacy Martin, Bérénice Benjo, Liam Cunningham, Tom Sweet, Yolande Moreau. Drammatico, 113’. Francia, 2015

Liberamente ispirato all’omonimo racconto di Jean–Paule Sartre (1939) e al romanzo “Il Mago” di John Fowles (1965)

 

Ci sono dei momenti – pochi, ma ci sono – in cui il vostro cronista non ha davvero idea di quali parole e metafore utilizzare per raccontarvi in modo chiaro e comprensibile un film che, anche a distanza di molte ore, resta un enigma prima sul piano drammaturgico poi su quello creativo.

Dato per assodato che non ho mai letto né Sartre né Fowles, il vero problema è capire come e perché tali testi abbiano ispirato l’esordiente Brady Corbet per il suo “L’infanzia di un capo”, vincitore alla Biennale di Venezia 2015 del Premio orizzonti miglior regia e del Premio Luigi De Laurentis alla miglior opera prima.

Entrare nella mente del regista e della giuria del Festival esula dalle mie competenze. Io mi limiterò ad alcune considerazioni.

Il film racconta, in quattro atti, la vita del piccolo Prescott (Tom Sweet) nella villa vicino a Parigi dov’è alloggiato con i genitori. Il padre (Cunningham), consigliere del presidente americano Wilson, lavora alle trattative di definizione di quello che diventerà il trattato di Versailles, dopo la fine della prima guerra mondiale.

La formazione del carattere di Prescott è segnata da una precoce tensione intellettuale e da frequenti scatti d’ira, che portano alla continua ridefinizione degli equilibri di potere familiare.

Quello che si consuma è uno scontro tra lo sterile e vigliacco mondo maschile dei diplomatici, e dell’ambiguo amico di famiglia Charles Marker (Pattinson), e quello femminile, vitale e vibrante, che circonda il bambino con le tre figure di donna che gestiscono la sua vita: l’austera e religiosa mamma (Bejo), la dolce governante (Moreau) e la fragile insegnante di francese (Martin).

La sinossi, per quanto articolata, sembra chiara. Peccato che di scatti d’ira non si veda nemmeno l’ombra, così come rimane fumoso il futuro che attende il giovane protagonista e il modo in cui influenzerà il mondo che lo circonda.

Il protagonista è un bambino americano, eppure appare chiaro che simboleggia uno tra Benito Mussolini e Adolf Hitler. Il fatto però che il regista non chiarisca quale dei due crea una suspense inutile e una struttura narrativa confusa, caotica, dispersiva, a tratti fastidiosa e pedante.

“L’infanzia di un capo” è un film volutamente simbolico, criptico, elitario, che non possiede però le qualità narrative e tecniche necessarie per iscriversi tra i capolavori del genere. Lo spettatore fatica a entrare dentro la storia e a provare una qualche empatia verso i personaggi.

Nonostante questi limiti, alcune interpretazioni spiccano. Prima di tutto quella dell’esordiente Tom Sweet, un’autentica e piacevole sorpresa, che mostra personalità e talento notevoli. Un ragazzo da seguire in futuro con attenzione.

Che fosse brava e bella lo si sapeva da tempo: Bérénice Benjo si conferma anche nel ruolo della madre rigida e anaffettiva. Stacy Martin e Yolande Moreau, per finire, regalano con i loro delicati e riusciti personaggi dolcezza e umanità a un film cupo e angosciante.

Brady Corbet è evidentemente un regista con del potenziale. Il nostro augurio, però, è che il suo prossimo film possa essere più semplice, parlare a tutti ed evitare al pubblico il gran mal di testa che il finale pasticciato di “L’infanzia di un capo”, invece, regala.

 

Il biglietto da acquistare per “L’infanzia di un capo” è:
Neanche regalato
(con riserva). Omaggio. Di pomeriggio. Ridotto. Sempre.

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