“La canzone di Achille”: recensione del romanzo di Madeline Miller

L'epica e la mitologia classica prendono vita in questa rilettura del mito edita da Marsilio

La vicenda che ha come protagonisti Achille e Patroclo porta con sé alcune questioni dalla valenza universale – sulla vita, la fama, l’amicizia, la morte. Per questo, anche a distanza di secoli da quando è stata messa in forma scritta o cantata da Omero, e nonostante il finale sia noto, continua ad affascinare il pubblico.

Madeline Miller nella sua Canzone di Achille, edita da Marsilio e vincitrice nel 2011 dell’Orange prize, decide di tornare a raccontare la storia dei due compagni e amici, che sotto le mura di Troia trovarono fama imperitura, e morte. Lo fa scegliendo di servirsi del punto di vista di Patroclo, nei secoli il più sacrificato della coppia, e partendo da lontano.

Facciamo la conoscenza del figlio di Menezio quando è solo un bambino, poco considerato dal padre e insicuro. Lo seguiamo nel suo primo contatto col mondo dei “grandi”, quando col genitore si presenta da Tindaro come pretendete della bella Elena. E poi ancora, quando esiliato dalla sua casa, viene accolto presso il re Peleo e incontra il figlio di lui, il semidio Achille. Un incontro che segnerà il suo destino.

Il romanzo della Miller è un compendio di grandi figure mitologiche e grandi eventi – non ultimo la guerra di Troia -, ma a me quella che è piaciuta di più è la prima parte, quella dove si raccontano vicende meno famose. L’infanzia e la fanciullezza dei protagonisti, che moriranno giovani, l’emergere di lati caratteriali poco noti dell’uno e dell’altro. I drammi minori, prima del Dramma.

Quanto di vero c’è, in questo racconto? Quanto, invece, è pura farina del sacco della Miller? A mio avviso poco importa. Secondo alcuni l’epica non può essere riscritta o rivista, ma soltanto riproposta per quello che è, attingendo scrupolosamente dalle fonti. Io invece mi chiedo: se ragionassimo tutti secondo questo principio avrebbe ragione di esistere il filone stesso del romanzo storico?

Ogni grande romanzo storico che ho letto – a partire dalla bellissima serie su Roma antica di Colleen McCullough – si basa su un compromesso: la cornice va rispettata fin nel minimo dettaglio, l’ambientazione deve essere perfetta, non c’è spazio per l’inesattezza o l’approssimazione. Ma poi, in qualche misura, la “fantasia” dell’autore deve entrare in gioco. Altrimenti non avremmo narrativa, non avremmo storie oltre la Storia.

Ecco, io penso che la Miller nel suo riscrivere l’epica faccia proprio questo – qui, come in “Circe” -: metta del suo all’interno di una cornice perfetta, immagini fin dove è possibile immaginare. La Miller dà una voce riconoscibile a personaggi già immortali, che con la sua rivisitazione non perdono niente in spessore o potenza, non vengono banalizzati o ridicolizzati.

Io personalmente avrò difficoltà, da oggi, a separare il “vero” Patroclo – quello dell’Iliade, quello dei libri di letteratura classica e mitologia – da questo Patroclo, dolce, combattuto, eternamente legato al suo uomo; a non pensare alla Grecia antica nei termini con cui “La canzone di Achille” la descrive.

E per non staccarmi da personaggi e ambientazione sarei tentata di rileggere il libro daccapo… peccato che ho già versato tutte le mie lacrime la prima volta, e non me la sento di bissare. Pensate il potere delle – buone – rivisitazioni: nonostante la storia sia nota e arcinota, le emozioni arrivano lo stesso. 

 

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