“La douleur”: il viaggio interiore e intimo di un’anima alla deriva

Dal romanzo autobiografico di Marguerite Duras, una grande performance di Mélanie Thierry

Un film di Emmanuel Finkiel. Con Mélanie Thierry, Benoît Magimel, Benjamin Biolay, Shulamit Adar, Grégoire Leprince-Ringuet. Drammatico, 127′. Francia, Belgio, Svizzera 2017

Giugno 1944, la Francia è sotto l’occupazione tedesca. Lo scrittore Robert Antelme, maggior rappresentante della Resistenza, è arrestato e deportato. La sua giovane sposa Marguerite Duras è trafitta dall’angoscia di non avere sue notizie e dal senso di colpa per la relazione segreta con il suo amico Dyonis. Pronta a tutto per ritrovare il marito, si lascia coinvolgere poi in una relazione ambigua con un agente francese della Gestapo, Rabier, l’unico a poterla aiutare. La fine della guerra e il ritorno dai campi di concentramento annunciano a Marguerite l’inizio di un’attesa insostenibile, un’agonia lenta e silenziosa nel mezzo del caos della liberazione di Parigi.

 

Adattamento dell’omonimo romanzo autobiografico di Marguerite Duras, scritto nel 1944 ma pubblicato solo nel 1985, che racconta il periodo che l’autrice trascorse in attesa del ritorno del marito, membro della Resistenza francese, “La Douleur” è un film sull’assenza, sull’attesa, il viaggio interiore di una donna che attraversa la violenza della Storia.

Emmanuel Finkiel riesce a riprodurre la violenza dei sentimenti, ma anche, grazie ad una audace messa in scena, il distanziamento proprio della scrittura dell’autrice, senza mai sacrificare l’emozione. La sua ricostruzione non arriva mai a ingombrare il filo tenue di questo viaggio interiore: una donna, in preda all’ansia, sta aspettando suo marito. A poco a poco viene svelata la spaventosa contraddizione: la paura che non ritorni incontra la paura che ritorni.

Rispetto alla prima parte del film, dove Marguerite prova in tutti i modi ad avere notizie dell’uomo, dopo che i tedeschi hanno abbandonato Parigi, la seconda si immerge più profondamente nella sua vita interiore. Parigi, nel grigiore dell’occupazione e della Liberazione, è percepibile solo attraverso la sua visione frammentata.

Stupenda la sequenza in cui la donna, durante i festeggiamenti del 14 luglio dopo la liberazione della Capitale, cammina per le strade, indifferente al giubilo che la circonda. Lo scenario sullo sfondo diventa sfocato sinonimo di morte. La luce blu dà un aspetto esteriore freddo che simboleggia la perdita irreparabile, la privazione degli esseri e delle cose. Il che rende ancora più sorprendente il contrasto con gli interni, i ristoranti fumosi immersi in colori caldi, dove la presenza di cibo sembra incongruente.

Mélanie Thierry esprime con intensità questo disordine e disorientamento del personaggio. L’attrice è credibile e trova sempre la nota giusta, anche nelle reazioni più inaspettate del suo personaggio. E poi la presa di coscienza finale: l’attesa era il modo per tenere in vita il marito, ma il suo amore era durato soltanto per il periodo della sua assenza. Al suo ritorno scopre di non desiderarlo più.

“La douler” non è un film facile, anzi. Ti fa immergere nella lenta attesa della protagonista e la fluidità complessiva della storia sicuramente ne risente. Un’opera puramente sensoriale e mentale che riesce a conciliare due movimenti spesso contraddittori o ridondanti nel cinema: l’immagine e la voce fuori campo.

 

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Federica Rizzo
Campana doc, si laurea in scienze delle comunicazioni all'Università degli studi di Salerno. Internauta curiosa e disperata, appassionata di cinema e serie tv, pallavolista in pensione, si augura sempre di fare con passione ciò che ama e di amare fortemente ciò che fa.

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