“La Paz del futuro”: intervista ai registi Francesco Clerici e Luca Previtali

Arte e politica si intrecciano nel racconto della storia di Janet Pavone, muralista americana

Abbiamo avuto il piacere di incontrare e intervistare Francesco Clerici e Luca Previtali, registi del documentario “La Paz del futuro”, presentato in anteprima nella sezione Freestyle della Festa del cinema di Roma 2022.

Il documentario attesta il potere dell’arte, anche in campo politico e sociale, attraverso la storia di Janet Pavone, muralista americana che ha vissuto in Nicaragua, dove si era unita alla rivoluzione sandinista degli anni ’80. Quasi 25 anni dopo il suo completamento, Janet e i suoi colleghi muralisti sono invitati a restaurare la loro opera più monumentale: il murale Quiabu nella base militare di Esteli.

Catturando diversi momenti storici attraverso un uso ampio di materiali d’archivio e nuovi filmati, “La Paz del futuro” rappresenta un ritratto “on the road” di ciò che resta di una serie di murales e di una rivoluzione, e allo stesso tempo propone una riflessione sull’arte, la politica e il passare del tempo: uno sguardo dal futuro verso il passato.

 

Buongiorno Francesco e Luca, grazie per aver accettato il nostro invito. La prima domanda è un nostro classico: nonostante la giovane età i vostri curriculum sono già molto ampi, ma dovendo presentarvi ai nostri lettori come vi definireste?

Francesco Clerici: Definirmi è molto difficile. L’unica conclusione a cui sono arrivato negli anni è che mi sento una persona curiosa, con tutto ciò che questo comporta.

Luca Previtali: Concordo con Francesco. Anche io mi definisco una persona curiosa e più in generale molto amante del cinema.

 

Com’è nata la curiosità verso il Nicaragua e la storia, poco conosciuta ma davvero interessante, della rivoluzione sandinista e degli artisti internazionali che decisero di prendervi parte?

F.C.: Cercherò di essere breve, anche se in realtà la storia è lunga – e molto personale. Janet, la protagonista del film, è la madre di un mio carissimo amico, quasi un fratello per me, e tutto quello che so della rivoluzione sandinista lo devo a loro. Il mio interesse per il murales, invece, viene dalla mia formazione artistica. Si sa molto poco di questa forma d’arte, della sua nascita e dei suoi destinatari. Diciamo quindi che “La Paz del futuro” è nato da una serie di interessi, che spazia dalla politica all’arte.

L.P.: Io sono stato coinvolto da Francesco e mi sono innamorato sia del progetto in sé che del personaggio di Janet e della sua storia. È stato un piacere dare il mio contributo.

Quali sono state le difficoltà economiche, logistiche e artistiche nel girare questo documentario?

F.C.: La cosa più difficile, per me, è stata girare in un luogo che non conoscevo. Non ero mai stato in Nicaragua e il rischio era creare un film delle vacanze con “occhio da gringo”, come i nativi definiscono i bianchi. Scegliere cosa filmare e come farlo era molto complicato, e in questo Luca ha preso in mano la situazione. Questa storia riguarda infatti persone che sono di fatto la mia famiglia adottiva e non volevo che la mia vicinanza a loro e alla storia mi portasse a un giudizio di parte.

L.P.: Per me la cosa più difficile è stato far sì che la storia non risultasse troppo banale, che emergesse bene la componente artistica. Che la storia personale di Janet risultasse bene inserita in un un quadro generale più ampio. Ho cercato un equilibrio senza eccedere in nessuno dei due aspetti.

 

Nel documentario mi ha colpito molto l’accoglienza avuta da Janet al suo ritorno in Nicaragua, quasi 25 anni dopo. La gente l’ha accolta come fosse una di loro, una sorta di eroina. Voi cosa avete percepito, da registi?

F.C.: Non so come dire, Janet è davvero considerata una di loro. Una cosa molto strana, per quelle latitudini. In Nicaragua, i bianchi – gli americani, gli europei – sono subito visti come un corpo estraneo. Invece con Janet si aprivano tutte le porte, e il motivo probabilmente è che lei tutto quello che ha fatto l’ha poi lasciato alla popolazione, senza imporsi o cercare di controllare. Questo non sempre succede con le Ong o altre associazioni.

Avete presentato il documentario a Roma, riscuotendo un’ottima accoglienza. E adesso?

F.C.: Il film sarà auto-distribuito e il bello dell’auto-distribuzione, secondo me, è che ti dà la possibilità di incontrare altre persone curiose e appassionato. Magari non guadagnerà molto soldi, ma cercheremo un contatto, una comune vibrazione con lo spettatore. Il nostro è un film fatto con pochi soldi e tanto cuore, con la voglia di raccontare una storia. Sicuramente faremo tappa a Milano, probabilmente a Firenze e poi lo manderemo ad altri Festival.

 

Prima di lasciarci, altra domanda di rito: progetti per il futuro?

F.C.: Questa è bella una domanda [entrambi i registi sorridono]. Io ho finito di montare un cortometraggio, utilizzando il materiale di scarto delle video-trappole di Nicola Rebora e Paolo Rossi, due documentaristi di animali, e sto pensando a quali Festival presentarlo. E da anni sto girando un documentario sulle pause pranzo a Milano.

L.P.: Io in realtà sono ancora in una fase di limbo. Lavoro anche come montatore (ad esempio ho lavorato al montaggio del film “Mahmood”, presentato sempre alla Festa) e mi piace spaziare, passare da lavori più artistici ad altri più tecnici.

 

Grazie a Francesco Clerici e Luca Previtali per essere stati con noi. E in bocca al lupo per questo e i progetti futuri. 

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