“La ragazza che leggeva nel metrò”: recensione del romanzo di Christine Féret-Fleury

Nella bella Parigi, una storia che è un invito encomiabile alla lettura, ma che purtroppo difetta quanto a ritmo e coinvolgimento

Juliette vive e Parigi e ha una vita monotona e piuttosto prevedibile. Agente immobiliare, ripete tutti i giorni la medesima routine: sveglia, metrò, lavoro. Stesso percorso, stesse fermate, stesso orario.

Lettrice incallita, di tanto in tanto alzando gli occhi dal suo libro, ama scrutare tra le pagine dei compagni di viaggio: l’appassionato di insetti, la ragazza che ama i romanzi rosa e si commuove sempre a pagina 247, la studentessa di matematica…

Un giorno, d’improvviso, Juliette decide di scendere qualche fermata prima del solito. Quella decisione, tanto banale, cambierà tutto. Per strada incontra infatti Zaide, una bimbetta sveglia ed esuberante che le presenta suo padre, Soliman, uomo di mezza età che vive circondato da migliaia di vecchi libri, convinto che ogni volume abbia “un’anima” e che, se donato alla persona giusta, possa cambiare il corso degli eventi.

La ragazza che leggeva nel metrò di Cristine Féret-Fleury, pubblicato lo scorso maggio da Sperling & Kupfer, è una favola moderna, un omaggio ai libri, al loro intrinseco valore e alla magia che sono in grado di donare al lettore attento.

Un esplicito invito alla lettura, anche, che acquista ancora maggiore importanza in un difficile momento come quello che viviamo oggi, in cui la pandemia di Coronavirus ci costringe a rimanere a casa.

Per quanto l’intento del romanzo sia encomiabile, questo purtroppo stenta a decollare, lasciando il lettore nel complesso deluso e scarsamente ispirato. La narrazione procede lenta, troppo lenta, e manca del tutto quel guizzo che possa incuriosire e mantenere avvinti fino all’ultimo.

 

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