“La scomparsa di mia madre”: un documentario che sfiora l’ossessione

Beniamino Barrese insegue Benedetta Barzini, icona anni '60, in un corpo a corpo quasi alienante

Un film di Beniamino Barrese. Con Beniamino Barrese, Benedetta Barzini, Candice Lam,  Lauren Hutton, Carlotta Antonelli. Documentario, 94′. Italia 2019

Benedetta Barzini, femminista militante, scrittrice e docente universitaria, in continua lotta con quel sistema che non le appartiene e che per lei significa solo sfruttamento femminile, decide oggi, all’eta di 75 anni, di lasciare tutto, scomparire, per raggiungere un luogo lontano e abbandonare il mondo delle immagini, delle ambiguità e di tutti gli stereotipi a cui la vita l’ha obbligata. Il film rappresenta il tentativo da parte del figlioBeniamino Barrese di trovare delle risposte e di fermare nella memoria la vera essenza e autenticità di sua madre.

 

Da sempre affascinato dal potere delle immagini e dalla figura di chi lo ha messo al mondo, Beniamino Barrese in “La scomparsa di mia madre”, presentato al London Film Festival e in uscita nelle sale italiane, propone un ritratto molto intimo, personale e privato del suo rapporto con Benedetta Barzini, la madre.

Per il resto del mondo la donna rimane ancora oggi un’icona, la prima grande modella italiana degli anni ’60, capace di ispirare i più importanti fotografi e artisti dell’epoca, Andy Warhol, Richard Avedon, Salvador Dalì, Irving Penn.

È vero che il dovere di un documentarista è prima di tutto verso la realtà che racconta, tuttavia il film di Barrese fa sentire a tratti lo spettatore un voyeur, anche imbarazzato, piuttosto che un interlocutore attivo.

La presenza di Barrese dietro la telecamera non si fonde (deliberatamente?) con la realtà che cerca di esplorare e le verità che cerca di afferrare, più per un suo bisogno personale che per un interesse collettivo. Il regista è una voce fuori campo sempre presente e quasi ingombrante, sempre pronta a invadere gli spazi della madre, mettendone a dura prova la pazienza come solo un figlio sa fare.

Dall’altra parte, ora come allora, Benedetta Barzini è una figura affascinante, magnetica e sfaccettata. È incantevole sentirla parlare della vita ed è quasi ipnotica la forza con cui porta avanti le sue argomentazioni. La Barzini non teme di sfidare la telecamera, di sottrarsi all’obbiettivo e di ribellarsi a quella che sembra essere una violazione della sua persona. Una persona che, come ripete lei stessa quasi come un mantra, non può essere colta dall’obbiettivo. E, da spettatrice, forse un po’ sono d’accordo.

Alcuni hanno lodato la capacità di Barrese di costruire un dialogo così ricco di contrasti con la madre che, a quanto si dice, restituisce un’immagine personale di un’icona tanto importante. Eppure io ho trovato disturbante trovarmi nel bel mezzo di questo dialogo, punteggiato dai “no” di una madre che alla fine, però, si arrende ai bisogni e al bene del figlio.

Ho trovato a tratti difficile assistere al percorso di una donna che prova a sfuggire alla telecamera, finanche abbandonandosi all’acqua e al mare, senza riuscire però a trovare tregua dal figlio e dal suo obbiettivo. Se non fosse che distogliere lo sguardo da Benedetta è impossibile, questa insistenza del regista avrebbe finito per diventare alienante.

 

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