Malala: un’eroina dei giorni nostri

“Cerchiamo di condurre una gloriosa lotta contro l’analfabetismo, la povertà e il terrorismo. Dobbiamo imbracciare i libri e le penne, sono le armi più potenti. Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo. L’istruzione è l’unica soluzione. L’istruzione è la prima cosa”. Questa è l’ultima frase del discorso di Malala Yousafzai, il 12 luglio 2013 a New York durante il discorso all’ONU, per l’assemblea della gioventù.

Parole potenti, pronunciate da una ragazza non ancora 20enne, ma diventata già da tempo un simbolo della lotta contro la violenza sulle donne in Pakistan. Malala è nata nel 1997 a Mingora, nella Valle dello Swat. È la più giovane vincitrice del premio Nobel per la Pace di sempre – il premio le è stato attribuito a ottobre di quest’anno.

Malala ha la fortuna di avere avuto un padre con una mentalità molto aperta, rispetto alla consuetudine del loro Paese di origine, il Pakistan. L’uomo ha infatti parlato molte volte a favore del diritto delle donne all’istruzione e più in generale alla libertà. Il desiderio della giovane Malala di lottare è nato da lui. Lui che per primo ha sfidato i talebani, tenendo aperta la sua scuola, nonostante non fosse più consentito alle ragazze di avere un’istruzione.

All’età di 11 anni Malala inizia a combattere. Tramite un giornalista della BBC, sotto falso nome per la sua sicurezza, cura un blog dove racconta quello che sta accadendo in Pakistan sotto il regime talebano, un regime fortemente restrittivo nei confronti delle donne, e documenta la loro occupazione militare. In un secondo momento, Malala inizia a tenere comizi, parlando alle persone dell’importanza dell’istruzione, e anche ad apparire in televisione, diventando piuttosto conosciuta.

Il padre è costretto a chiudere la scuola per evitare ritorsioni. I talebani non solo vietano alle donne di leggere libri, ma anche di vedere film e DVD, di cantare e danzare. Tutte attività, queste, ritenute contrarie agli insegnamenti dell’Islam, troppo occidentali.

Malala dà fastidio. Malala, con la sua sola presenza, fa paura a chi pretende di dettare legge in nome di Dio. Per la ragazza le cose sembrano farsi più semplici, quando pare che i talebani siano stati cacciati dall’esercito. In realtà la pace è tutt’altro che all’orizzonte. E la dimostrazione si ha il 9 ottobre 2012. Finita la scuola, come ogni giorno Malala prende il bus insieme alle compagne per tornare a casa. Prima era solita andare a piedi, ma la madre, preoccupata per le continue minacce ricevute, le impone di fare altrimenti. Superato un posto di blocco dell’esercito, tre persone fermano il mezzo, chiedendo all’autista di avere informazioni su alcune ragazze. Nel frattempo, un uomo sale e domanda alle ragazze chi di loro sia Malala. Nessuna risponde, ma in tante si voltano verso di lei. È l’unica ad avere il viso scoperto. L’uomo punta la pistola, una Colt 45, e spara tre colpi in successione.

Nel suo libro, “Io sono Malala”, la giovane racconta che non ha avuto modo, allora, di rispondere alla domanda, altrimenti lo avrebbe fatto. Avrebbe spiegato agli assalitori che devono permettere alle ragazze di andare a scuola, anche alle loro figlie e sorelle.

Malala si salva dall’attentato. Dopo la prima operazione avvenuta in Pakistan viene portata in Inghilterra, a Birminghan. Non è più potuta tornata nel suo Paese da allora. Tanti suoi connazionali hanno pensato che questo attentato fosse solo una montatura per scappare dal Pakistan. Malala li giustifica, dicendo che il suo popolo ha sofferto molto per colpa dei politici corrotti, della guerra.

Ho letto il libro di questa ragazza: mi ha commosso, mi ha fatto provare rabbia, mi ha fatto capire la storia di una Paese che non conoscevo. Quando ho chiuso il libro mi sono sentita diversa. Ma soprattutto fortunata. Voglio concludere con un’altra frase tratta dal suo discorso all’ONU. Perché, molto spesso, noi occidentali sembriamo non capire la fortuna che abbiamo.

“Cari fratelli e sorelle, ci rendiamo conto dell’importanza della luce quando vediamo le tenebre. Ci rendiamo conto dell’importanza della nostra voce quando ci mettono a tacere, Allo stesso modo, quando eravamo nello Swat, nel nord del Pakistan, abbiamo capito l’importanza delle penne e dei libri quando abbiamo visto le armi”.


 

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