“Mektoub, My Love: Canto Uno”: un film non-film sulla giovinezza

Abdellatif Kechiche racconta con sensualità l'estate di un gruppo di ragazzi nella Francia del 1994

Un film di Abdellatif Kechiche. Con Shain Boumedine, Ophélie Baufle, Salim Kechiouche, Lou Luttiau, Alexia Chardard. Drammatico, 180′. Francia, 2017

Amin ha lasciato gli studi di medicina per scrivere il suo film. Ma è estate, ci penserà domani. Lasciata Parigi per le spiagge del Mediterraneo, torna a casa e agli amici di sempre. Torna da Ophélie, compagna di giochi che non smette di guardare e fotografare. Ophélie che vuole sposare Clément ma fa l’amore con Toni, tombeur de femme incallito. A due passi dal mare, Amin flirta con Charlotte e Céline, inaugurando un’estate di giochi d’acqua e di promesse appese in cui le azioni restano senza conseguenze.

 

Atteso con molta curiosità, “Mektoub, My Love: Canto Uno”, nuovo lavoro di Abdellatif Kechiche, regista noto per “La vita di Adele” (2013), ha diviso il pubblico, con una maggioranza critica e non convinta. Io, invece, appartengo alla minoranza che lo ha apprezzato, e devo dire che non me lo aspettavo.

Credo che la chiave stia nel comprendere che questo è un film non-film, ovvero che non rispetta i tempi e gli schemi del film come opera narrativa.

Ci offre, invece, uno sguardo sulla vita di alcuni giovani durante le vacanze estive in una località balneare del sud della Francia nel 1994. Molti di loro vivono lì, alcuni sono turisti e uno, Amin, è tornato da Parigi per le vacanze.

È lui il nostro osservatore, colui che ci guida con il suo sguardo tra le pigre vicende di quell’estate. Sì, perché in realtà non succede proprio niente di particolare: solo flirt estivi, pettegolezzi, confidenze.

Il tutto, però, è condito da tanta, tantissima sensualità. No, non mi riferisco alla lunga e dettagliata scena di sesso iniziale, ma a quella continua tensione che pervade i corpi belli e caldi dei personaggi, tra giochi in spiaggia e serate in discoteca. Sono giovani all’apice del loro splendore e della loro desiderabilità, e questo in qualche modo attrae i nostri occhi verso di loro.

Ecco, Kechiche gioca molto sul piano visivo, traendo il massimo vantaggio dai quei corpi bellissimi – e soffermandosi un po’ troppo sui posteriori femminili pieni e rotondi. Ma non dà fastidio, perché come può dar fastidio la bellezza?

Quel che stanca è la lunghezza del film, tre ore non passano facilmente, soprattutto se non succede granché. Capisco che la durata sia dovuta allo stile del non-film, che riporta le scene come potrebbero essere nella realtà, con dialoghi ripetitivi e serate che vanno per le lunghe, quasi come se agli attori fossero stati guidati solo da un canovaccio e poi avessero improvvisato.

Un’idea interessante, questa, ma va tenuta in conto anche la resistenza dello spettatore medio, che dopo un’ora e mezza guarda l’orologio e pensa: “Cielo, siamo solo a metà!”.

Nonostante questo, quando le luci si riaccendono resta in bocca un dolce sapore di mare, e nel petto la voglia di cedere all’amore con meravigliosa leggerezza.

 

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Valeria Lotti
Originaria della provincia di Roma, vive tra l'Europa e la Cina, coltivando la sua passione per lo studio di società e culture. Dottoranda a Berlino, ama scrivere di cinema, viaggi e letteratura. Si ritiene democratica e aperta alla critica, purché non sia rivolta ai libri di Harry Potter.

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