“Mio figlio”: sogni e incubi di un genitore in un thriller unico

Il film di Christian Carion, girato in sei giorni, è un progetto sperimentale del cinema francese

di Luciaconcetta Vincelli

 

Un film di Christian Carion. Con Guillaume Canet, Mélanie Laurent, Olivier de Benoist, Antoine Hamel, Mohamed Brikat.Thriller, 84’. Francia, Belgio, 2017

Julien e Marie hanno divorziato da qualche tempo, e in questo pesa il fatto che lui fosse sempre lontano per lavoro e lei non potesse contarci, né come marito né come padre di Mathys, che ora ha sette anni. La notizia della sparizione del bambino, durante la notte, dalla tenda dove dormiva insieme ai compagni di un campo invernale, richiama però immediatamente Julien sulle Alpi. E per ritrovare suo figlio, l’uomo si mostra disposto a tutto.

 

Che Festa del cinema sarebbe senza sperimentazioni? Roma si dimostra ben preparata in questo senso, riprova ne è il film di Christian Carion “Mio figlio”, presentato nella Selezione Ufficiale, una sfida aperta al modus operandi cinematografico consolidato.

Le scene, girate in soli sei giorni, hanno come protagonista un Guillaume Canet completamente all’oscuro dello “scenario” e ,dunque, straordinariamente autentico nelle sue battute e movenze, integralmente improvvisate al momento. L’attore non è da solo, però. Mélanie Laurent lo sostiene con intensità in scambi che superano una natura puramente attoriale. È il racconto a richiederlo.

Julien, padre assente, sempre in viaggio per lavoro, arresta incredulo la sua vita di fronte alla notizia della scomparsa del figlio Mathyas durante una gita in montagna. Inizia allora una ricerca disperata, che lo conduce a riavvicinarsi alla ex moglie e, soprattutto, a continuare le indagini oltre l’aiuto della polizia, sotto l’influsso di un istinto paterno inarrestabile.

Ed è a questo punto che il cinema francese, con questa pellicola, ci sorprende: un sentimento a lungo non nutrito esplode violentemente, come violenta è stata la rinuncia inconscia di essere padre, e la tranquillità intimistica dei complessi film d’oltralpe si trasforma in un thriller d’autore.

Il regista si dimostra, infatti, elegantemente capace di approfondire il legame padre-figlio, affrontato come logorante paura di perdere il proprio “garçon”, orchestrando il film su due ritmi ben gestiti. Il dolore, reso quasi tangibile come Nanni Moretti riuscì nello straziante “La stanza del figlio” (2001), sfoglia qui le sue molteplici declinazioni.

È la sfida proposta dal regista che lo permette: il cinema si apre all’improvvisazione, che ha bisogno di tempo sulla scena, come dei genitori necessitano tempo per parlare in queste circostanze. I dialoghi, gli sguardi guadagnano così in realismo, più che in qualsiasi personaggio ben scritto e ben interpretato. Si potrebbe azzardare: Carion ha interpretato l’essenza, il dolore stesso, che facilmente si porta al limite della giustizia.

Dal primo ritmo, composto di calma ri-meditazione, sovrapposizioni di suoni, voci e ricordi, si passa inaspettatamente al secondo stadio del dolore, in cui il film si trasforma in un action unico nel suo genere. Grazie alle musiche di Laurent Perez del Mar, l’azione del thriller mantiene la suspence, senza aver bisogno in realtà di colonne sonore ingombranti, bensì nel silenzio propone definitivamente l’aberrazione della violenza e il dolore stranito delle scene. Giungendo, comunque, al riconoscimento dell’ingiustificabilità della violenza, ma non del dolore.

In tal modo, con uno stile solo apparentemente instabile, Carion giunge all’essenza del tema che si propone, rispecchiata persino nell’ambientazione della vicenda, che, tra la neve sulle montagne e nella foresta, ha ancora più bisogno di essere riscaldata da un focolare, come il nucleo caldo di una famiglia, di un legame.

 

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