“Nella testa di una Jihadista”: Anna Erelle indaga su Isis e social network

Un reportage che solleva interessanti interrogativi, ma ha il limite di voler mescolare troppo saggio e romanzo

Parlare di argomenti come il terrorismo, l’odio razziale e religioso, i pericoli di vivere in un mondo come il nostro – per non dire di quello che sta succedendo in Europa e nel resto del mondo negli ultimi mesi, settimane, giorni – è impresa ardua.

Lo è soprattutto se non si vuole cadere nella faciloneria o nel semplicismo, finire per riportare idee altrui, magari storpiate ed estrapolate dal contesto, farsi prendere la mano, in un senso o nell’altro. Per questo, pur da giornalista, fino a oggi mi sono guardata bene dal farlo. Dal farlo su tutti i canali, che fossero le colonne di questo sito o i profili social.

Una mia opinione sui diversi fenomeni che stiamo vivendo ce l’ho, e anche piuttosto chiara, ma sono convinta che in certi casi sia molto meglio informarsi, leggere, capire, ascoltare, piuttosto che parlare. Di dichiarazioni tanto roboanti quanto vuote se ne leggono a migliaia, di commenti che c’entrano poco o niente pure. Io preferisco costruirmi una cultura sull’argomento e poi, eventualmente, parlare.

Ho letto il libro di Anna Erelle “Nella testa di una jihadista, che è un’inchiesta giornalistica in tutto e per tutto, proprio con l’obiettivo di provare a capire di più uno dei fenomeni che oggi sono all’ordine del giorno: la “propaganda digitale” dello Stato Islamico (IS) e i metodi di reclutamento utilizzati dai jihadisti su Internet, la cosiddetta “Jihad 2.0”, che interessa da vicino anche molti Paesi europei.

Come qualcuno ha giustamente notato online, il libro della Erelle ha dei limiti, sia dal punto di vista dell’inchiesta che dal punto di vista del romanzo. Diciamo che nel voler unire i due piani – quello saggistico e quello narrativo – il libro finisce per essere una via di mezzo che non accontenta né i puristi del rigore giornalistico né i lettori semplici. Da un lato c’è troppo racconto in prima persona, pochi fatti rigorosi e oggettivi e molto sentimentalismo, dall’altro c’è poca storia, poco movimento, poca trama.

Personalmente ho trovato che buoni spunti di riflessione ci siano, anche se Anna Erelle mostra fin troppo bene i “limiti” di tanti giornalisti, anche affermati: ovvero quello di innamorarsi dei propri pezzi e dei propri progetti e di non riuscire a lasciarli andare, nemmeno quando sarebbe il caso.

La sua inchiesta prende una brutta piega, deraglia dai binari prestabiliti. Anna avrebbe voluto finire il reportage dando un’uscita di scena al personaggio fittizio di Mélodie in un modo degno, sul confine siriano. Bilel cambia le carte in tavola, questo non è più possibile. Non è colpa di Anna, non c’è molto che si possa fare. Ma lei, la giornalista, si incaponisce comunque a volere andare avanti. Non riesce a dire basta. È perfettamente consapevole del fatto che sta rischiando troppo, ma non riesce a smettere. Perché mettere il punto equivarrebbe, per lei, a una sconfitta personale.

Quando si tratta di inchieste giornalistiche sul campo, di lavoro sotto copertura, di identità fittizie c’è un confine sottile tra professionalità e incoscienza. I non addetti ai lavori – il padre di Anna nel libro, ad esempio – vedranno sempre ogni progetto di questo tipo come una follia, come un suicidio.

In realtà il lavoro del giornalista d’inchiesta si alimenta di esperienze come questa – esperienze al limite, esperienze sul filo del rasoio -, tanto che per chi fa questa professione rischiare diventa quasi normale (la parola normale la uso con tutte le cautele del caso).

Ma, appunto, c’è un limite. La volontà di scoprire, investigare e informare è alla base della professione giornalistica, ma quando più di quello è il nostro ego che parla, il nostro desiderio di arrivare all’obiettivo, di chiudere il cerchio, di farsi valere come professionisti… be’, allora magari ascoltare qualche altra campana oltre alla nostra, ascoltare il parere di chi ci sta intorno e ci vuole bene, potrebbe non essere un’idea malvagia.

Più che una recensione mi accorgo di aver scritto una serie di idee, di flash, di spunti di riflessione. Per una volta mi perdonerete se il pezzo non è esattamente lineare e coerente.

Posso dire di aver letto “Nella testa di una Jihadista” in due modi, con due ottiche differenti. Da un lato, l’ho fatto da giornalista, mettendomi nei panni della protagonista e capendo fin troppo bene certe dinamiche, certi meccanismi (dalla vita precaria della freelance al rapporto coi superiori, coi colleghi, con il web).

E poi ho letto il libro da profana, da persona che sull’argomento Jihad e internet sa estremamente poco. Confesso che oltre alle idee più semplici e basilari – ad esempio quanto nel mondo di oggi sia sempre più complicato proteggere un ragazzino/ragazzina di 14/15 anni, perché i pericoli peggiori non sono fuori dalla porta di casa ma dentro, a portata di click – mi è venuta una gran voglia di leggere altri libri, altri reportage, altro materiale. Di capire di più, di saperne di più.

È naturale avere un’idea sull’IS, sulla Siria, sui fatti di Parigi e più in generale sul terrorismo, e questa idea può essere di qualunque tipo (“alla Salvini”, come mi piace definirne alcune, oppure più posata e aperta). Quello che conta, secondo me, è soprattutto avere delle basi su cui fondare le proprie idee.

Libri come quello della Erelle, storie come quella della Erelle, servono principalmente a questo: a spingere le persone a informarsi di più, a scavare più a fondo, a non accontentarsi di qualche dato frammentario estrapolato dai servizi del Tg o di luoghi comuni usati e abusati. Libri come questo possono essere un ponte per ampliare i propri orizzonti, le proprie conoscenze e le proprie letture, per dire: “Ok, adesso so una cosa, voglio saperne dieci e in modo più approfondito”, perché la conoscenza è potere. La conoscenza, in qualunque campo, rende più consapevoli e più forti.

Con me l’inchiesta di Anna Erelle è servita allo scopo.

 

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