Recensione di “Le ragazza della libreria Bloomsbury” di Natalie Jenner

Mondadori pubblica un bel romanzo storico ambientato nella Londra di fine anni '40

Nonostante il genere stia riscuotendo in questi anni un grandissimo successo, scrivere una storia davvero “al femminile”, che racconti l’universo femminile in modo credibile, senza ricorrere a (troppe) banalità o luoghi comuni è tutt’altro che semplice. Ci provano in tanti, per reale convinzione o per rispondere al bisogno del pubblico di storie di questo tipo, ci riescono in pochi.

Natalie Jenner rientra in questo secondo, ristretto gruppo di autori. Il suo Le ragazze della libreria Bloomsbury, uscito per Mondadori il 12 luglio, è un romanzo storico ben scritto e avvincente, una storia di donne e di libri. In una parola, una piccola chicca. 

È il 1949 e Londra guarda con fiducia alla ripresa economica del dopoguerra. In Lamb’s Conduit Street, nel centro della città, la libreria Bloomsbury sembra ancorata saldamente al passato: gestita con piglio severo e conservatore dal direttore Herbert Dutton, è organizzata secondo cinquantuno regole inviolabili e una gestione tutta al maschile che non dà alcuno spazio alle tre commesse che ci lavorano.

Vivien è rimasta sola dopo che il fidanzato è stato ucciso in guerra, e la sua vita è resa ancora più complicata dall’insopportabile spocchia di Alec McDonough, responsabile del reparto narrativa. Grazie al lavoro in libreria, Grace mantiene la famiglia, barcamenandosi tra l’esaurimento del marito, il senso del dovere e i suoi sogni irrealizzati. Evie è l’ultima arrivata: tra le prime donne a laurearsi a Cambridge, si è vista negare un ruolo accademico in favore di un collega – maschio – meno meritevole di lei.

Tre donne brillanti e intraprendenti che hanno la strada continuamente sbarrata da uomini meno capaci e più arroganti di loro. Finché un improvviso malore del direttore e il ritrovamento di un prezioso libro non forniscono l’occasione per un radicale e fantasioso cambio della guardia. 

Al di là della bella ambientazione, una Londra post-bellica quanto mai palpitante e verosimile, e della trama a suo modo sorprendente, con la storia che non si sviluppa solo tra gli scaffali della libreria Bloomsbury ma fa anche piccole incursioni nel mondo accademico, in quello del mercato librario e nei circoli intellettuali e altolocati, a colpirmi in questo caso sono stati soprattutto i personaggi (elemento talvolta trascurato).

Le protagoniste Vivien, Grace e Evie sono molto diverse una dall’altra, ma tutte e tre sfaccettate e credibili. Al di là delle vicende personali, attraverso di loro Natalie Jenner declina le tante difficoltò di essere donna sul finire degli anni ’40. Il mondo del lavoro è dominato dagli uomini; il patriarcato, nonostante il divorzio fosse possibile già dal 1857 nel Regno Unito, è il cuore delle famiglie. Come fare a far sentire la propria voce, quando tutti (o quasi) le vorrebbero relegate in posizioni subalterne? 

Al di là del lieto fine, che comunque ci sta, ho apprezzato il fatto che l’autrice abbia avuto il coraggio di chiudere la storia in modo tutto sommato aperto, almeno sul versante romantico/sentimentale. È proprio questo che, secondo me, rende “Le ragazze della libreria Bloomsbury” un bel romanzo storico al femminile.

Grace, Evie e Vivien sono dei bei personaggi a tutto tondo perché riescono a brillare in quanto tali, senza bisogno di appoggiarsi a una storia d’amore. E alla fine sono la loro forza di volontà e il loro coraggio (di ricominciare, di lanciarsi in un’impresa economica rischiosa, di chiudere un capitolo senza sapere cosa porterà il futuro) che ci restano impressi, molto più degli uomini che scelgono di avere accanto. 

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Roberta Turillazzi
Giornalista per passione e professione. Mamma e moglie giramondo. Senese doc, adesso vive a Londra, ma negli ultimi anni è passata per Torino, per la Bay area californiana, per Milano. Iscritta all'albo dei professionisti dal 1 aprile 2015, ama i libri, il cinema, l'arte e lo sport.

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