“Il senso del dolore. L’inverno del commissario Ricciardi”: un giallo lirico nella Napoli degli anni ’30

Maurizio De Giovanni firma il primo capitolo della serie, che unisce giallo, pathos e personaggi indimenticabili

Ho fatto la conoscenza del commissario Ricciardi nel 2017, e da quel momento ho amato, a suo modo, ognuno dei dodici romanzi dov’è protagonista.

 

In vista del debutto della serie su Rai1, ho deciso di riproporre le recensioni dei primi quattro libri di De Giovanni. E ho anche aggiornato la copertina, per dimostrare la mia buona disposizione di partenza verso il buon Lino Guanciale. Speriamo bene.

 

Udite, udite, ecco il primo romanzo imperdibile del 2017, almeno secondo il mio modesto parere. Un libro che catalogare solo come giallo è offensivo, non rendendo la parola nemmeno in parte l’idea della sua complessità e poeticità.

Il senso del dolore. L’inverno del commissario Ricciardi di Maurizio De Giovanni mi ha sorpreso sotto diversi punti di vista.

Il metodo del coccodrillo” – primo capitolo della serie con protagonista un altro poliziotto, l’ispettore Lojacono – mi aveva già fatto apprezzare lo stile dell’autore napoletano, il suo non essere scontato e riuscire a sorprendere il lettore pur scrivendo gialli – cosa non semplice, ve lo garantisco.

Ecco. “Il senso del dolore” è superiore in tutto, sia per ciò che riguarda lo stile che il protagonista.

Qualche notazione storica, se dopo la mia recensione aveste voglia di leggerlo. Uscito nel 2006 per Graus con il titolo “Le lacrime del pagliaccio”, è stato ripubblicato da Fandango Libri nel 2007 con il nome attuale – e nel 2012 anche da Einaudi.

Si tratta del primo romanzo del ciclo ambientato nella Napoli degli anni ‘30, con protagonista il commissario Luigi Alfredo Ricciardi.

Partiamo proprio da lui, l’eroe di questa storia, magnifico e unico nel suo essere sofferente, tormentato, complicato. Sembra di vederlo, mentre indaga instancabilmente, tormentato dai propri fantasmi e da quelli dei morti di morte violenta, che gli si mostrano sul luogo del delitto, lasciando il loro ultimo messaggio.

Sembra di vederlo, e di provare con lui tutto questo dolore che lo schiaccia, gli impedisce, di fatto, anche solo di pensare di costruirsi una famiglia – come vorrebbe tata Rosa, 70enne pessima cuoca che si occupa di lui da quando era bambino – e di vivere una vita al di fuori dell’ambito lavorativo.

Di poliziotti, commissari e investigatori è piena la narrativa e la letteratura, eppure Ricciardi riesce a distinguersi dalla massa. Per il suo carattere, la sua caratterizzazione, e ovviamente per il suo “dono”.

Vedeva i morti. Non tutti e non a lungo: solo quelli morti violentemente, e per un periodo di tempo che rifletteva l’estrema emozione, l’energia improvvisa dell’ultimo pensiero. Li vedeva come in una fotografia che fissava il momento in cui si era conclusa la loro esistenza, con i contorni che andavano man mano sbiadendo fino a scomparire […] L’immagine del morto con i segni delle ferite e l’espressione dell’ultimo attimo prima della fine; e le ultime parole, ripetute incessantemente, come a voler finire un lavoro cominciato dall’anima prima di essere strappata via.

La capacità di vedere i morti, di percepire le loro emozioni, lo perseguita da quando era un ragazzino, da quando nella tenuta di famiglia di Fortino, in provincia di Salerno, avvenne “il Fatto”.

Seduto sotto un tralcio, per terra, vide l’uomo: era in una zona di penombra, come a voler trovare ristoro dalla feroce calura di quel terribile luglio nella giungla. La testa reclinata, le braccia abbandonate lungo il busto, le mani che toccavano il suolo. […] L’uomo, che doveva essere morto, alzò lentamente la testa e la girò verso Luigi Alfredo, con un lieve scricchiolio delle vertebre: lo guardò con gli occhi velati e semichiusi. Le cicale smisero di frinire. Il tempo si fermò. “Perdio, non l’ho nemmeno toccata la tua donna.”

L’ambientazione napoletana e novecentesca è particolare, viva, vivida. Del periodo fascista non si legge molto, ma personalmente mi piace molto che De Giovanni sia capace di scriverne senza giudizi, raccontando il periodo, le persone, l’Italia e i suoi piccoli drammi noir.

Lo stile è impeccabile, coinvolgente, emozionante. Ogni pagina spinge ad andare avanti, emoziona. È difficile trovare un libro così mimetico, nel senso che i personaggi sembrano uscire dallo scritto, parlare direttamente al lettore.

Il senso del dolore” è prima di tutto un giallo, quindi il fatto che sia intrigante, ben strutturato e con una soluzione non scontata non guasta. Questo elemento, però, finisce quasi per passare in secondo piano, messo in ombra dalla poeticità del libro.

C’è una vena marcata di malinconia e sofferenza che emerge praticamente da ogni pagina, qui, anche attraverso elementi secondari o di contorno. E quando questa è affiancata al sordido, al nero descritto al suo massimo grado, l’effetto è ancora più potente.

Pensiamo solo alle coppie di innamorati in cui si imbatte Ricciardi nel giardino del belvedere. 

Ricciardi vide due coppie, sulle panchine: un marinaio cercava di abbracciare una ragazza che lo respingeva ridendo; un giovane elegante, magro, forse uno studente, teneva per mano una donna che lo fissava trasognata. Ricciardi spostò lo sguardo: a pochi passi di distanza dal marinaio vide un uomo seduto a terra che teneva entrambe le braccia strette sull’addome come ad abbracciare se stesso. Dalla bocca usciva una schiuma giallastra che ribolliva d’aria. Gli occhi erano vitrei. Anche così, da lontano, il commissario percepiva le sue parole: “Senza te non c’è vita. Senza te non c’è vita. Senza te non c’è vita…”. Si è avvelenato, pensò lui. Barbiturici, acido, varechina. Che cosa cambia?

Poco più indietro la sagoma di una giovane donna dondolava da un ramo, impiccata a un pezzo di stoffa; forse una sciarpa. Sembrava un frutto tardivo dell’inverno, come un grappolo d’uva sfuggito alla vendemmia e non ancora rinsecchito. Gli occhi fuori dalle orbite, il viso paonazzo, la lingua orrendamente gonfia e bluastra che pendeva dalle labbra tumefatte. Il collo allungato dalla trazione, gambe e braccia distese e composte. Continuava a ripetere: “Amore mio, perché? Amore mio, perché?”. Un posto da innamorati, pensò Ricciardi. Ne aveva visti altri, così “abitati”: le persone andavano a cercare la pace dove erano state felici, non sapendo che non c’era pace, nemmeno nella morte.

Questi personaggi, questo passaggio, non è prettamente funzionale allo sviluppo della storia o alla soluzione del caso, eppure quanta poesia in solo poche frasi. Perché in ultima analisi è questo che colpisce del mondo di Ricciardi: orrore e meraviglia lo abitano insieme, fianco a fianco, come una coppia di vecchi sposi.

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