“Rose – A love story”: se tanti buoni elementi non fanno un buon film

L'opera prima di Jennifer Sheridan, nonostante il potenziale, affonda tra boschi e bei dialoghi

Un film di Jennifer Sheridan. Con Sophie Rundle, Matt Stokoe, Olive Gray.
Horror, 86′. Gran Bretagna 2020

Divorata da una malattia violenta e terrificante, Rose vive isolata insieme al marito Sam. L’arrivo di uno sconosciuto fa a pezzi il fragile equilibrio che i due sono riusciti a costruire…

 

Scritto da Matt Stokoe e diretto da Jennifer Sherida, “Rose – A love story”, presentato in anteprima al London Film Festival, è un film che ha tutto fuorché una vera e propria storia a tenere insieme comunque una buona qualità recitativa e ottime scelte registiche.

Il film comincia in media res, quando Sam e la moglie Rose vivono già da molto tempo in una casa nel bel mezzo di una foresta. Passano le stagioni, arriva l’inverno e, nel mentre, si capisce poco o niente di chi Sam e Rose siano o del perché vivano come reclusi.

Dopo interminabili minuti si inizia a dipanare la matassa, ma comunque la storia non decolla, semmai affonda. I dialoghi e le dinamiche che intercorrono tra Sam e Rose sono molto interessanti, ma poco adatte al grande schermo e, probabilmente, risulterebbero più efficaci all’interno di un contesto teatrale.

Gli attori Matt Stokoe (Sam) e Sophie Rundle (Rose) sono credibili nei rispettivi ruoli e riescono a canalizzare vera tensione ed emozione per rendere credibile la relazione tra i loro personaggi. Anche Amber, interpretato da Olive Gray, è molto interessante e si inserisce bene tra Sam e Rose.

La regia è veramente intelligente. Nonostante questo sia il suo primo lavoro, Jennifer Sheridan segue con pazienza e dedizione i suoi personaggi, capendo quando entrare loro dentro e quando, invece, lasciarli liberi di muoversi e agire.

Tuttavia, la mancanza di un vero e proprio racconto riempie il film di quella spiacevole sensazione di non andare da nessuna parte. Dopo un’ora e mezza perso nei boschi, lo spettatore si ritrova confuso, disorientato e, per certi versi, spappolato come le sanguisughe del film.

Parte della “colpa” è anche del finale che, invece di dare un senso al tutto, pone ancora più domande alle quali, a quel punto, non è nemmeno più interessante rispondere.

“Rose – A love story” è, per certi versi, la prova che anche quando si hanno tanti buoni elementi insieme, la mancanza di un racconto fa sì che tutto vada in frantumi. Teatro e cinema hanno molti punti di contatto, ma ignorare i bisogni narrativi del secondo privilegiando dinamiche sceniche tipiche del primo non è decisamente il modo migliore per far sì che i due mondi cooperino al meglio.

 

Previous article“L’amore non si sa”: un film coraggioso, di denuncia e di speranza
Next article“Io sto bene”: migrazioni di ieri e di oggi nel film di Donato Rotunno
Federica Gamberini
Bolognese di nascita, cittadina del mondo per scelta, rifugge la sedentarietà muovendosi tra l’Inghilterra (dove vive e studia da anni), la Cina, l’Italia e altre nazioni europee. Amante della lasagna bolognese, si oppone fermamente alla visione progressista che ne ha la signorina Lotti, che vorrebbe l’aggiunta della mozzarella. Appassionata di storie, nel tempo libero ama leggere, scrivere, guardare serie TV e film, e partecipare a quanti più eventi culturali possibile.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here