“Selfie”: un docufilm “collaborativo” che racconta le periferie disagiate

Agostino Ferrente non delude. I sedicenne Alessandro e Pietro prendono per mano lo spettatore

Un film di Agostino Ferrente. Documentario, 76′. Francia, Italia 2019

Napoli, quartiere di Traiano. Inizialmente era destinato agli abitanti delle baraccopoli sul lungomare di Napoli, ai senzatetto del dopoguerra. Ma presto divenne una specie di ghetto. Alessandro e Pietro sono due adolescenti che si filmano con un iPhone per raccontare il loro difficile quartiere, la loro vita quotidiana, l’amicizia che li lega.

 

Con un titolo del genere, “Selfie”, quasi temevo un documentario che criticasse l’odierna ossessione di pubblicare autoscatti sui propri profili social, nella vana speranza di far risvegliare le coscienze dei più ossessionati. Invece mi sbagliavo.

Il selfie, in questo caso, non è il tema, bensì il mezzo con cui viene realizzato il film. Il regista Agostino Ferrente ha consegnato a due sedicenni, Alessandro e Pietro, degli smartphone e assegnato il compito di riprendersi durante la giornata. Vediamo così il racconto quotidiano della loro estate, tra momenti banali e altri tristemente acuti.

Siamo nel rione Traiano, nella periferia di Napoli, dove nel settembre 2014 l’adolescente Davide Bifulco è stato ucciso per errore dalla pallottola di un carabiniere. Alessandro e Pietro lo conoscevano e ce ne parlano, ci portano addirittura a casa della sua famiglia che chiede giustizia a uno Stato assente.

Ed è questa, a mio parere, la critica vera del film: il pregiudizio che nei quartieri malfamati tutti siano un po’ delinquenti e perciò meno meritevoli di essere ascoltati, aiutati, salvati. Cittadini di serie B, che lasciano la scuola ancora minorenni, hanno almeno un parente in carcere, devono scegliere se restare puliti o fare un po’ di soldi con lo spaccio. Sono cittadini abbandonati dallo Stato, e lo sappiamo bene che il rafforzamento delle mafie si deve all’assenza dello Stato.

Pietro e Alessandro cercano di guadagnarsi il pane onestamente e ne sono fieri, ma sanno di non avere grandi opportunità per crearsi un futuro migliore. Sono dotati di quella disillusione e di quella saggezza tipiche di chi proviene dai quartieri poveri.

Mi viene in mente la loro conversazione a Posillipo, che parafrasata dice più o meno così:

“Credi che potremo mai venire a vivere qua?”
“Ci vogliono un sacco di soldi per comprare una casa qua e noi non ce li abbiamo.”
“Magari se lavoriamo tanto li mettiamo da parte…”
“Ma se io faccio il barista e tu vuoi fare il barbiere! Che soldi possiamo mai fare?”
“Ah è vero, non ci avevo pensato”.

E ritornano alla dura realtà. I sogni durano poco per gente come loro, giusto il tempo di una conversazione. Noi spettatori, nel frattempo, ci affezioniamo inevitabilmente ai due ragazzi e alla loro amicizia, tra piccole vanità, discorsi sulle donne, tentativi di fare la dieta, gite al mare e inaspettati accenni a Leopardi.

Questo docu-film collaborativo colpisce nel segno: riesce a raccontare la vita nei quartieri disagiati tratteggiandone un quadro quasi sociologico, con quel tocco di originalità dato dalla tecnica dell’auto-ripresa, per cui sono i protagonisti stessi a decidere dove portarci e cosa farci vedere e ascoltare.

Direi che da un esperto documentarista come Ferrente (suo il pluripremiato “Le cose belle”, ancora su Napoli) non potevamo aspettarci niente di meno.

 

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