“Till”: un potente film di denuncia, la storia di una madre che combatte

Regia, fotografia, musica e recitazione contribuiscono a far tornare indietro nel tempo

Un film di Chinonye Chukwu. Con Danielle Deadwyler, Jalyn Hall, Frankie Faison, Haley Bennett, Whoopi Goldberg. Drammatico, 130′. USA 2022

1955. Mentre si trova in Mississippi per una visita alla famiglia, il 14enne Emmett Till viene rapito e assassinato dopo essere stato accusato ingiustamente di molestie a da una donna bianca, Carolyn Bryant. Quando diventa chiaro che l’establishment bianco non ha interesse ad assicurare i suoi assassini alla giustizia, la madre di Emmett, Mamie, si trasforma in una riluttante attivista, e la sua battaglia diventa un catalizzatore per il movimento per il riconoscimento dei diritti civili negli Stati Uniti.

 

Nella canzone “La ballata di Emmett Till” Bob Dylan scrive: “If you can’t speak out against this kind of thing […] your eyes are filled with dead men’s dirt” (Se non puoi parlare contro questo genere di cose, i tuoi occhi sono quindi pieni dei residui di uomini morti).

Non è un caso che il film di Chinonye Chukwu, “Till”, concentri la maggior parte delle sue inquadrature sugli occhi, in particolare gli occhi di Mamie (Deadwyler), una donna e una madre, che guarda, all’inizio, al figlio con gioia, con amore e con preoccupazione.

Ma poi, una volta che le viene riconsegnato solo un corpo martoriato, ecco che lo guarda con disperato dolore, inesprimibile rabbia e, infine, con assoluta determinazione nel far sì che quello che è successo al suo Bobo non capiti più a nessun altro.

Perché il linciaggio e il brutale assassinio di Emmett Till avrà certamente dato nuovo slancio alla lotta per i diritti degli afroamericani negli anni ‘50, ma Emmett Till era soprattutto un ragazzino di quattordici anni e l’amato figlio di una madre che non si è mai fermata nella sua ricerca di giustizia.

Per lo spettatore è impossibile non lasciarsi toccare e coinvolgere dalla storia. La regia, la fotografia, la musica e la recitazione sono costruire in modo così armonioso che sembra di tornare indietro nel tempo, a quei terribili tre giorni nell’agosto del 1955 in cui la vita di un ragazzino venne spezzata per la bugia di una donna bianca, che lo accusò di molestie e che fu creduta sulla parola (soprattutto dal marito, autore materiale del linciaggio, processato ma giudicato innocente).

Lo spettatore soffre, si indigna, piange, si arrabbia ed esce dalla sala con uno sguardo diverso sulla realtà di oggi, folgorato dalla banalità del male. Perché Emmett sarà anche morto nel 1955, ma ancora avvengono episodi di violenza a sfondo razziale e la legge fatica a fare passi in avanti (la legge Emmett Till contro il linciaggio, ad esempio, è stata approvata negli Stati Uniti solo nel marzo 2022).

“Till” è un film di denuncia, un film di celebrazione dell’energia con cui Mamie ha lottato tutta la vita per i diritti degli afroamericani. Ma è anche una storia d’amore, quello eterno, profondo e immutabile che una madre nutre nei confronti di un figlio. È un film che ci invita a pensare, perché quando decidiamo di non farci problemi di fronte alle ingiustizie, perché magari non toccano direttamente la nostra piccola realtà, un giovane Emmett muore e i suoi aguzzini camminano nel mondo liberi.

Previous article“She came to me”: un racconto fresco del lato più surreale della vita
Next article“Seven winters in Tehran”: un documentario toccante e necessario
Federica Gamberini
Bolognese di nascita, cittadina del mondo per scelta, rifugge la sedentarietà muovendosi tra l’Inghilterra (dove vive e studia da anni), la Cina, l’Italia e altre nazioni europee. Amante della lasagna bolognese, si oppone fermamente alla visione progressista che ne ha la signorina Lotti, che vorrebbe l’aggiunta della mozzarella. Appassionata di storie, nel tempo libero ama leggere, scrivere, guardare serie TV e film, e partecipare a quanti più eventi culturali possibile.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here