“Un figlio di nome Erasmus”: un road movie banale, piatto, non ispirato

Alberto Ferrari propone tematiche viste e riviste, e le declina senza alcun guizzo o innovazione particolari

Un film di Alberto Ferrari. Con Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu, Daniele Liotti, Ricky Memphis, Carol Alt, Filipa Pinto. Commedia, 107′. Italia 2020

Jacopo lavora per una multinazionale di carattere umanitario; Ascanio fa la guida alpina per manager in cerca di ispirazione; Enrico è un architetto candidato alla Camera dei deputati e in procinto di sposarsi; Pietro è un “manager artistico” il cui principale cliente è un gruppo che fa cover dei Pooh. Sono amici da quando erano ragazzi, ed è proprio un ricordo di gioventù a riunirli: una loro ex fiamma, Amalia, conosciuta durante un periodo di studio in Portogallo, è deceduta e un giudice li ha convocati per comunicare loro le sue ultime volontà. All’arrivo scopriranno che uno di loro è il padre del figlio di Amalia: ma chi? Non resta che partire per un viaggio alla scoperta della paternità, che sarà anche un viaggio di scoperta di se stessi e un rinnovo dell’amicizia decennale.

 

Il Covid19 e il conseguente lockdown nel nostro Paese e nel resto del mondo hanno stravolto molti aspetti della vita delle persone, non ultimo il modo con cui fruiamo i film.

Se le piattaforme di video-streaming si sfregano le mani (i dati trimestrali di Netflix, ad esempio, parlano chiaro), il mondo del cinema, anche italiano, è chiamato a cambiare mentalità e approccio, se non vuole soccombere ma anzi ripartire.

Tra le prime soluzioni adottate dai produttori c’è stata quella di far uscire in “home video” delle pellicole inizialmente destinate alla distribuzione tradizionale in sala. Tra loro c’è “Un figlio di nome Erasmus” di Alberto Ferrari, primo esperimento in questo senso della Eagle Pictures.

Se l’idea distributiva è lodevole, il film in quanto tale è noioso, prevedibile, in una parola inutile. Il pubblico, invece di passare un paio d’ore piacevoli, si ritrova infastidito. La storia, infatti, non trasmette alcuna emozione né stimola riflessioni.

La sceneggiatura è esile, ondivaga, confusa, manca del tutto di coerenza. L’idea degli autori di firmare una commedia esistenziale e generazionale, capace di mescolare leggerezza e dramma raccontando la ventennale amicizia di quattro uomini, iniziata durante il progetto Erasmus, naufraga miseramente.

La messa in scena è piatta sotto ogni punto di vista; l’intreccio narrativo portato avanti attraverso cliché, battute penose e luoghi comuni sui quarantenni che lasciano sbigottito anche lo spettatore meglio disposto.

Una dubbia paternità, un amore condiviso, un viaggio on road che diventa veicolo di cambiamento: tutto visto e rivisto in altre pellicole, e riproposto dal regista Alberto Ferrari senza introdurre cambiamenti o guizzi di sorta.

Anche il cast, per quanto composto da attori esperti e amati, risulta poco ispirato, mal amalgamato, complessivamente inadeguato. I personaggi sono stati disegnati in modo approssimativo e poi portati in scena in modo svogliato e opaco.

“Un figlio di nome Erasmus” è un film di cui non sentivamo il bisogno, e che non avrebbe meritato, al di là del Covid, il passaggio in sala. Le bellezze del Portogallo, il progetto Erasmus, le gioie della paternità, quelle sì avrebbero meritato un trattamento diverso.

 

Il biglietto da acquistare per “Un figlio di nome Erasmus” è:
Neanche regalato. Omaggio. Di pomeriggio. Ridotto. Sempre.

 

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Vittorio De Agrò
È nato in Sicilia, ma vive a Roma dal 1989. È un proprietario terriero e d’immobili. Dopo aver ottenuto la maturità classica nel 1995, ha gestito i beni e l’azienda agrumicola di famiglia fino al dicembre 2012. Nel Gennaio 2013 ha aperto il suo blog, che è stato letto da 15.000 persone e visitato da 92 paesi nei 5 continenti. “Essere Melvin” è il suo primo romanzo.

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