Nella sua traiettoria da giornalista a sceneggiatore di film e opere teatrali di successo, Kemp Powers si è da sempre distinto per la sua abilità nel creare personaggi molto autentici, capaci di raccontare l’esperienza della comunità afroamericana con onestà e intelligenza.

Sin dal debutto nel 2013, la sua “One night in Miami” ha conquistato il pubblico di ogni teatro in cui è stata rappresentata, venendo celebrata per il modo con cui riesce a divertire lo spettatore mentre ricostruisce una notte di cui si conosce poco.

Non è quindi un caso, forse, che nel 2020 Kemp Powers torni a Londra per presentare il suo ultimo lavoro, “Soul”, scritto e co-diretto con Pete Docter (qui la recensione).

Per l’occasione, il London Film Festival lascia che sia proprio Rowan Wood, direttore artistico dello Young Vic e regista di “One night in Miami” a Londra, a dialogare con Powers. Una conversazione piacevole e vivace sull’importanza di raccontare storie più inclusive, che parlino della cultura afroamericana ma anche della diversità culturale in modo più profondo e autentico.

 

Sono passati esattamente quattro anni da quando abbiamo messo in scena “One night in Miami”, debutto teatrale sia per il tuo spettacolo che per me. E oggi torni a Londra con la versione cinematografica e con “Soul”. Come ti senti?

Naturalmente sono molto fiero di essere qui, ma con il cuore un po’ spezzato perché non posso esserci fisicamente. Sai, è stato proprio durante il nostro lavoro al Denmar che mi sono accorto dell’importanza che ha raccontare storie come queste. Per cui, è davvero un peccato non essere oggi a Londra insieme ai miei due film.

Partiamo da “One night in Miami”. Come hai ottenuto i diritti – oppure no – per raccontare questa storia?

Ho scritto “One night in Miami” dopo aver lavorato per quasi diciassette anni come giornalista. Sono da sempre un grande fan di tutti e quattro i personaggi, in particolare di Sam Cooke, della cui musica, devo essere sincero, non avevo i diritti al tempo della prima messa in scena. All’epoca ero a un punto della mia vita per cui non avevo tanti soldi e non sarebbe stato un problema perderli in una causa legale, ma sentivo di dover raccontare questa storia ed ero fiducioso che avesse il potenziale per coinvolgere gli spettatori. Il dibattito centrale tra Sam e Malcom X non è solo lo specchio dei miei dibattiti interiori ma è qualcosa che qualsiasi uomo nero si ripete nella testa quando prende una decisione sulla sua vita o sulla sua carriera professionale. Scrivendo questa storia ho preso dei rischi, soprattutto perché il modo in cui l’avevo pensata e poi strutturata non era facile da spiegare a potenziali produttori. Tutti probabilmente si sarebbero concentrati su Mohammed Alì piuttosto che su Sam Cooke e Malcom X, che invece sono il centro della storia. Ma ho deciso di scommettere su me stesso e mi sono detto: vai avanti, fallo!

Naturalmente nessuno sa cosa quei quattro si siano detti davvero quella notte. Come sei riuscito a ricostruire il dialogo fra questi personaggi, che tutti conosciamo così bene? Che tipo di ricerche hai fatto?

La prima volta che lessi dell’incontro tra Mohammad Alì, Malcom X, Sam Cooke e Jim Brown nel febbraio 1964 fu nel libro “Redemptio Song” di Mark Marqusse, che presenta l’incontro come un incrocio tra sport e movimento per i diritti civili. Da lì sono cominciati anni e anni di ricerche. Arrivando a conoscere le vicende e i dettagli delle vite di questi personaggi fino al 25 febbraio 1964 e sapendo cosa sarebbe successo nei dodici mesi successivi a quella notte, ho cominciato a immaginarmeli distintamente non come icone, ma come uomini che, una volta chiusa la porta, potevano finalmente lasciarsi andare. Ho poi arricchito la storia, da un punto di vista emotivo, ritornando indietro ai miei giorni all’università e ai discorsi che facevo con i miei compagni, che sono poi i discorsi che qualsiasi gruppo di ragazzi neri fa dall’alba dei tempi.

Adattata per il cinema la storia sembra molto più vasta…

Per fare il film, mi sono avvicinato al mio copione come faccio con ogni manoscritto che mi viene dato da leggere come materiale d’ispirazione, ovvero con la volontà anche di rifarlo da capo se serve. Per me fare il film non voleva semplicemente dire trasporre un’opera teatrale sul grande schermo. Volevo che la storia riguardasse sempre quei quattro personaggi, ma nel film ho deciso di dare più spazio alle vicende che portano quei ragazzi a quella notte precisa, e di approfondire la dinamica fratello maggior/mentore che c’era tra Mohammad Alì e Malcom X. Volevo mostrare alcuni elementi della mia ricerca ma volevo soprattutto finire il film con una nota speranzosa, nonostante tutti sappiamo che dopo quella notte due di loro verranno uccisi, perché non dobbiamo cadere vittime del cinismo.

Passiamo a parlare di “Soul”, un vero trionfo. Cosa puoi dirci della sua genesi?

È una storia divertente. Un giorno sono stato chiamato dal mio agente che mi ha detto che la Pixar mi voleva vedere per un progetto top secret. All’epoca stavo lavorando ad alcuni progetti, che non avevo fatto leggere a nessuno, e così non capii bene per cosa fossi stato contatto. Appena arrivato a Oakland sono stato portato in un cinema dove mi hanno mostrato una versione “work in progress” di “Soul”, al termine della quale il regista, Pete Docker, mi ha chiesto cosa ne pensassi. Onestamente, trovavo la storia piena di potenziale ma il personaggio principale non mi sembrava autentico. Dopo qualche giorno, mandai le mie note alla Pixar che mi propose di scrivere la sceneggiatura del film. Doveva essere un lavoro di dodici settimane, sono diventati due anni durante i quali ho lavorato a ogni aspetto del film, dalla sceneggiatura al casting.

Com’è stato il passaggio da sceneggiatore a regista?

Penso che Pete Docker sia un grande cantastorie. Lavorare con lui è come seguire una masterclass in regia, solo che impari tutto per osmosi per cui devi tenere occhi e orecchie aperte. Molto del lavoro del regista comporta rispondere a domande e prendere decisioni, con le quale poi convivere tutta la vita. Lavorare con lui non mi ha fatto solo crescere come regista ma anche come scrittore.

Quali elementi di “Soul” senti più tuoi? Quali, senza di te, non ci sarebbero?

Il lavoro alla Pixar è un lavoro collettivo, per cui qualsiasi cosa fai viene dissezionata dagli altri e devi avere una pelle molto dura per accettarlo. Tuttavia, penso che nel personaggio di Joe Gardner ci sia molto di me: siamo entrambi uomini sulla quarantina, siamo entrambi di New York e entrambi abbiamo una passione per il Jazz. In questo personaggio sono confluite molte delle mie esperienze di vita, come uomo afroamericano di New York, per cui i posti che Gardner frequenta o le esperienze che vive sono molto simile ai posti e alle vicende che un qualsiasi uomo afroamericano vive a New York. Si ha spesso paura di approfondire personaggi afroamericani nei film per timore di alienarsi altri gruppi sociali, ma io penso che se si rappresentano questi personaggi in modo autentico si scoprono delle verità universali in cui tutti si possono riconoscere. Era anche molto importante per me conservare questa autenticità perché uno spettatore afromericano potesse sentire che quel film fosse fatto da qualcuno che capisse appieno la sua cultura e la sua esperienza.

 

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Federica Gamberini
Bolognese di nascita, cittadina del mondo per scelta, rifugge la sedentarietà muovendosi tra l’Inghilterra (dove vive e studia da anni), la Cina, l’Italia e altre nazioni europee. Amante della lasagna bolognese, si oppone fermamente alla visione progressista che ne ha la signorina Lotti, che vorrebbe l’aggiunta della mozzarella. Appassionata di storie, nel tempo libero ama leggere, scrivere, guardare serie TV e film, e partecipare a quanti più eventi culturali possibile.

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