“Wajib – Invito al matrimonio”: incontro con Annemarie Jacir

La regista palestinese è a Roma insieme all'attore Saleh Bakri per presentare il suo terzo film

Dopo essere stato presentato al Festival di Locarno, arriva dal 19 aprile nelle nostre sale “Wajib – Invito al matrimonio”, terzo lungometraggio della talentuosa Annemarie Jacir.

In una giornata romana molto piovosa abbiamo incontrato la regista palestinese nata a Betlemme e cresciuta in Arabia Saudita, e l’attore protagonista Saleh Bakri.

Nel film interpreta Shadi, un architetto che vive in Italia e che torna a casa per il matrimonio della sorella. Insieme al padre Abu Shadi (Mohammed Bakri) percorrerà le strade di Nazareth su una vecchia Volvo, per seguire la tradizione locale: portare a mano gli inviti per l’imminente matrimonio.

 

“Wajib – Invito al matrimonio” è il suo primo film che esce qui da noi in Italia. Si parte da una storia familiare, di tradizioni e matrimoni, ma era nelle sue intenzioni ampliare il discorso e far riflettere sulla situazione palestinese, che in questo periodo è tornata di stretta attualità visti gli scontri nella Striscia di Gaza?

Annemarie Jacir: Questo è il mio primo film che esce in Italia, sì, e sono molto felice perché ho con il vostro Paese un profondo legame. La storia che volevo raccontare è incentrata sul rapporto padre-figlio e su una tradizione palestinese – quella di consegnare a mano gli inviti per il matrimonio di una figlia. La scelta di ambientare il film a Nazareth non è casuale: è la più grande città della Palestina storica, oggi Israele, animata da forti tensioni. I Palestinesi che ci vivono hanno infatti dovuto acquisire la cittadinanza israeliana dopo l’occupazione del 1948. Hanno la cittadinanza ma sono considerati cittadini di seconda classe, con diritti non equiparabili a quelli degli Israeliani. C’è questa lotta continua per guadagnare spazi, opportunità di lavoro e soprattutto per poter restare in questa terra. Il mio film parla anche di questo.

Perché ha scelto di mettere a confronto un padre e un figlio in questa sorta di viaggio on the road in miniatura, che si snoda per le strade di Nazareth?

Annemarie Jacir: Ero interessata a inserire due persone in un contesto intimo e ristretto quale può essere una macchina. I due personaggi, poi, la vedono in modo diverso, opposto: per il figlio è una prigione, un po’ come il suo ritorno nella natia Nazareth; per il padre è tutto, è la macchina di famiglia, è l’unica cosa che gli rimane. La scelta di costruire il film intorno a due personaggi maschili ha anche un po’ a che fare con la mia, di famiglia. Da me le donne parlano molto, mentre generalmente gli uomini parlano molto meno. Mio fratello e mio padre, ad esempio, dicono poco e si parlano poco. Volevo quindi analizzare questo aspetto: come gli uomini si dicono le cose che si dovrebbero dire e come si tacciono altre cose che invece dovrebbero sapersi dire.

“Wajib – Invito al matrimonio” deve essere considerato semplicemente un’opera di intrattenimento oppure contiene anche qualche sotto-testo politico e civile?

Saleh Bakri: Abbiamo cercato di raccontare una storia partendo da una tradizione di Nazareth e del nord della Palestina e questo ci ha permesso di aprire una finestra sulla società, attraverso il rapporto padre e figlio. Io personalmente non faccio film per mandare messaggi politici, ma piuttosto per immergermi nella condizione umana, entrare in un personaggio, capire le sue contraddizioni e la sua complessità.

Annemarie Jacir: Come sceneggiatrice e regista non mi accosto mai al cinema con l’idea di mandare un messaggio ma piuttosto con quella di raccontare una storia che sia la più onesta possibile. Mi pongo delle domande, e le pongo al mio Paese.

Possiamo dire che i due protagonisti rispecchiano due parti di lei? E a quale posizione si sente più vicina, a quella conciliante del padre Abu Shadi o a quella più intransigente del figlio?

Annemarie Jacir: Mi piace questa domanda, e mi piace il fatto che abbiate notato la mia vicinanza a tutti e due i personaggi. Nei miei film ci sono sempre due caratteri in opposizione, e io sono entrambi. Anche in questo caso, la contrapposizione tra padre e figlio riflette quella che c’è in me. Politicamente sono più vicina alla posizione di uno, emotivamente a quello dell’altro. Ma li amo entrambi perché ognuno ha sua storia, le sue motivazioni.

Come vive una donna palestinese oggi nello stato di Israele? E una regista?

Annemarie Jacir: Come palestinese è inevitabile sentire le pressioni. A Betlemme dove sono cresciuta, ad esempio, i soldati sparano anche ai bambini e il muro della separazione ce l’hai davanti. Adesso vivo ad Haifa e lì la situazione è diversa, anche se le discriminazioni nei confronti dei palestinesi sono sempre evidenti. Per quanto riguarda la mia professione mi sento molto libera, forse più che se lavorassi in Occidente. Nell’industria cinematografica indipendente non ci sono distinzioni, c’è grande parità – anche di genere – e ci si muove tutti per un fine comune.

 

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