“The wasteland”: un film neorealista, dove parlano le emozioni

Una storia semplice, in bianco e nero, arricchita dall'espressività degli attori e da una bella fotografia

Un film di Ahmad Bahrami. Con Ali Bagheri, Farrokh Nemati, Majid Farhang, Mahdieh Nassaj.
Drammatico, 102′. Iran 2020

Il dirigente di una fabbrica di mattoni collocata in un’area desertica informa gli operai e le loro famiglie della chiusura dell’attività. Tutti dovranno andarsene e ad occuparsi dell’abbandono del sito sarà Lotfollah che lì è nato e ha lavorato ed è innamorato di Sarvar, una donna su cui nella piccola comunità si fanno pettegolezzi.

 

Per gli amanti del cinema realista, “The wasteland” di Ahmad Bahrami, vincitore della sezione Orizzonti alla Mostra del cinema di Venezia, rappresenta un’ottima opportunità di esplorare temi legati alla diseguaglianza sociale in un linguaggio chiaro e nitido.

Nel film la presenza del regista è quasi assente, tanto che a volte ci si scorda di essere di fronte a un’opera cinematografica. La telecamera si muove al ritmo dei pensieri e dei gesti rituali dei personaggi, riprendendo sempre la scena per intero e mai soffermandosi troppo a lungo sui dettagli.

Questo modo di raccontare, di dare rilevanza ai personaggi piuttosto che alle loro azioni, abituati come siamo a storie dal ritmo sostenuto dove succede tutto velocemente, all’inizio stranisce e non convince ma, quando il film svela il suo vero tessuto narrativo, diventa quasi piacevole.

Se, infatti, la storia è piuttosto semplice e lineare – il proprietario di una fabbrica di mattoni è costretto a vendere e licenzia i suoi dipendenti –, la sceneggiatura polivocale che propone lo stesso fatto visto attraverso i punti di vista degli operai coinvolti trasforma il film in una potente arma di critica sociale. In un mondo in cui il profitto è sovrano e i padroni cascano sempre in piedi, cosa resta dei dipendenti, soprattutto di quelli leali e cresciuti dentro all’azienda come Lotfollah?

Tutto questo affascinantissimo tessuto narrativo è sorretto da una fotografia e da una recitazione che, ancora una volta, sottolineano le emozioni dei personaggi più che le loro azioni e parole. Il bianco e nero è usato in modo magistrale per far risaltare ogni aspetto di questa terra desolata, dalla polvere al caldo abbagliante sotto cui gli operai sono costretti a lavorare.

La recitazione, un po’ come la telecamera, rimane piatta ma viene arricchita dall’espressività della voce e del volto degli attori. Soprattutto il volto della protagonista è così magnetico da rapire lo spettatore tanto quanto ha rapito il povero Lotfollah che, per amore, viene lasciato indietro dal sistema e si lascerà inghiottire dal destino della sua amata fabbrica di mattoni, l’unica casa che abbia mai conosciuto.

 

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