“Hit the road”: l’esordio di Panah Panahi è toccante, eccentrico, riuscito

Il regista iraniano, figlio d'arte, parla di famiglia ma soprattutto della difficoltà di dire addio

Un film di Panah Panahi. Con Hassan Madjooni, Pantea Panahiha, Rayan Sarlak, Amin Simiar. Drammatico, 93′. Iran 2021

Una famiglia disordinata e tenera è in viaggio attraverso un paesaggio aspro. Ma dove sta andando? Sul sedile posteriore, papà ha una gamba rotta. Ma è davvero rotta? La mamma si sforza di ridere quando non trattiene le lacrime. Il ragazzino continua ad esplodere in una coreografia di karaoke da auto. Tutti si danno da fare per il cane malato, e si danno sui nervi a vicenda. Solo il misterioso fratello maggiore tace. 

 

Io viaggio non per andare da qualche parte, ma per andare. Viaggio per viaggiare” diceva Robert Louis Stevenson. E non è che uno dei tanti, tantissimi che sul viaggio hanno scritto pensieri e aforismi rimasti indelebili. Il cuore di molti di questi è il medesimo: il punto di arrivo non è importante, ciò che conta è il percorso (fisico ma anche e soprattutto emotivo) che facciamo per arrivare nel dato punto.

Questo discorso vale anche per quasi tutti i grandi road movie che in questi anni abbiamo visto al cinema, ultimo, ma solo in ordine di tempo, “Hit the road” dell’iraniano Panah Panahi, presentato a Cannes in estate e fresco vincitore del Premio come miglior film della Competizione ufficiale al London Film Festival.

Un debutto convincente (che immaginavo avrebbe potuto aggiudicarsi il premio, vista la tematica che affronta e gli altri contendenti in lizza), quello del figlio del celebre regista iraniano Jafar Panahi, che porta avanti la sua riflessione sulla famiglia e su cosa significhi, in ultima analisi, accomiatarsi dal passato in modo delicato, a tratti eccentrico, a tratti persino divertente (e questo è un tono che forse uno si aspetta meno, da un film di questo tipo).

All’interno di un’auto in movimento, un’ambientazione che sentiamo quasi premerci fisicamente addosso, ispirando un forte senso di claustrofobia e un certo bisogno di aria fresca, un ragazzino energico (Rayan Sarlak) divide lo spazio con il padre imbronciato (Hassan Madjooni) e la sua gamba rotta.

Sui sedili davanti, la madre (Pantea Panahiha) e l’altro figlio (Amin Simiar), al posto di guida, lo sguardo fisso sull’orizzonte deserto. Nessuno dice dove stanno andando, ma questa destinazione non detta aleggia nell’auto, generando preoccupazione, insofferenza e alcuni comportamenti eccentrici… 

L’auto procede lentamente sulla strada polverosa e sulle note della bella colonna sonora, che utilizza pezzi iraniani pop anni ’70. La musica, le prove dei quattro attori, la scenografia minimalista: tutto contribuisce a creare questa sensazione malinconica, nostalgica.

Verso cosa sta viaggiando la famiglia? Non lo sappiamo, nessuno lo dice, ma percepiamo chiaramente che si tratta di una prossima separazione, di un distacco. E se da un lato non vediamo l’ora di scendere dall’auto, come i suoi occupanti stremati dall’eccessiva vicinanza, dall’altro vorremmo che “la fine” non arrivasse mai. 

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Roberta Turillazzi
Giornalista per passione e professione. Mamma e moglie giramondo. Senese doc, adesso vive a Londra, ma negli ultimi anni è passata per Torino, per la Bay area californiana, per Milano. Iscritta all'albo dei professionisti dal 1 aprile 2015, ama i libri, il cinema, l'arte e lo sport.

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