Incontro ravvicinato con il regista e attore americano Ron Howard

Alla Festa del Cinema di Roma tra film e aneddoti su Bette Davis, Glenn Close e John Wayne

Con la sua delicatezza “Pavarotti”, l’ultimo documentario diretto da Ron Howard, che racconta uno dei grandi della lirica mondiale soffermandosi sull’immagine pubblica ma anche su quella privata, ha convinto pubblico e critica della Festa del cinema di Roma.

Dopo averci dato un assaggio della sua disponibilità alla conferenza stampa, il regista americano sessantacinquenne agli Incontri ravvicinati è un fiume in piena. Non si risparmia su nulla, risponde, racconta aneddoti, fa sorridere. Sentirlo parlare è una delle cose più interessanti accadute finora in quel di Roma.

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Com’è arrivato un cineasta come lei, che ha diretto grandi film d’intrattenimento, a realizzare documentari?

Come cinefilo, sono sempre stato affascinato ma anche intimidito dai documentari. Da ragazzo pensavo che, se non avessi avuto successo nel cinema, sarei potuto diventare un giornalista. Insomma, mi piaceva l’idea di avere a che fare con storie vere. Jonathan Demme passava con straordinaria agilità dai film di finzione ai documentari; e quando io ho avuto l’opportunità di girare un documentario mi sono confrontato con lui, chiedendogli se fosse una buona idea o una scelta da idiota. Lui mi ha incoraggiato, dicendomi che l’esperienza mi avrebbe arricchito e non solo professionalmente. Ho intenzione di girare altri documentari: mi piace davvero passare dai film basati su sceneggiature ai documentari. Il lavoro da documentarista è molto stimolante e credo influenzi anche il mio lavoro per i film di finzione.

Tornando indietro ai suoi primi passi come attore, ha recitato in “America Graffiti” di George Lucas la cui struttura ricorda molto quella de “I Vitelloni” di Federico Fellini. Sapevate che il film era stato ispirato da un classico del cinema italiano?

Io di certo non lo sapevo, e non ebbi modo di sapere se almeno Lucas ne fosse consapevole. Penso che almeno ne fosse consapevole Francis Ford Coppola, produttore della pellicola. Per quel film ricordo di essere andato nel nord degli Stati Uniti. Io ero cresciuto nella Hollywood del “vecchio sistema” dove gli addetti ai lavori erano uomini anziani, bruschi e brutali, mentre lì ebbi il piacere di lavorare con studenti che amavano il cinema. Fu come un risveglio che finì per trasformare il senso che fino a quel momento avevo dato a questo mestiere.

Quanto è stata importante la televisione degli anni ’60 e ’70 per la sua formazione?

All’epoca televisione e cinema erano molto diversi, la tecnologia si prestava meglio al secondo, mentre la prima rimaneva semplice e lineare. Nei serial televisivi tutti partecipavano al processo creativo, ma quando ho iniziato con “The Andy Griffith Show” ero solo un bambino di sei anni e nessuno mi ascoltava. Dopo un anno, però, suggerii di modificare una delle mie battute e venni ascoltato. Da quel momento ho sentito di fare parte del gruppo.

Uno dei suoi primi film da regista è stato “Splash – Una sirena a Manhattan”. Quanto le è stato utile il lavoro precedente come attore quando si è trovato sul suo set?

Sicuramente mi ha permesso di capire meglio certe dinamiche. Quando ho iniziato ad approcciarmi al cinema piano piano mi sono accorto che passavo più tempo in una sala che davanti alla televisione; ci sono state pellicole che mi hanno aiutato proprio a capire la differenza tra cinema e televisione. Anche lo stesso “Happy days”, quando ha iniziato a venire girato alla presenza del pubblico, mi ha permesso di osservare la risposta delle persone e di gestire la scrittura della sceneggiatura anche in base a questo.

Nel 1994 gira “Cronisti d’assalto”. Lo ha fatto per raccontare il mondo del giornalismo o per tornare al suo vecchio sogno, quello di fare il giornalista?

Direi entrambi. Avendo tra gli sceneggiatori un giornalista della rivista Time ho avuto la possibilità di esplorare un mondo che mi affascina tutt’ora. Ho sempre pensato che il lavoro del giornalista sia molto importante e difficile: deve essere trasparente, super partes, capace di comunicare anche storie e pensieri scomodi. Penso che le controversie, le polemiche sulle storie che si sentono nascano proprio da questo: l’incapacità di comunicare un diverso pensiero, e di accettarlo. Anche lo stesso Pavarotti, ad esempio, è stato molto criticato quando si è allontanato dalla lirica con l’intento di creare ponti tra culture e persone, ma a lui non importava cosa pensassero gli altri, continuava per la sua strada. Anche i giornalisti e chiunque lavori nel mondo della comunicazione dovrebbe farlo.

Inizialmente il ruolo che poi è andato a Glenn Close era stato pensato per un uomo, solo dopo abbiamo deciso di cambiare il nome e renderlo femminile. E Glenn era talmente nella parte che Michael [Keaton ndr] nella scena in cui se le danno di santa ragione, mi chiese di chiederle di andarci piano perché… lo stava letteralmente massacrando!

Cosa può dirci, invece, di uno dei suoi film più apprezzati fino a oggi, “A beautiful mind”? 

Volevamo combattere il tabù della malattia mentale e per farlo avevamo tre possibilità: realizzare un film umoristico, un film tragico, oppure raccontare la storia di John Nash. L’obiettivo era far comprendere alle persone cosa si provasse ad essere considerati dei “matti”, essere anime tormentate che non vedono il mondo come gli altri. Akiva Goldsman ha scritto una grande sceneggiatura e gli attori le hanno dato vita sullo schermo.

Lei ha avuto la fortuna di lavorare anche con un mito come John Wayne, nel western “Il pistolero” del 1976. Ci racconta qualcosa di lui?

A dire il vero non lo amavo molto come attore, non lo ritenevo un grande. Nonostante riuscisse a mettere tutti a disagio considerato il suo carisma, tra noi nacque un rapporto straordinario fin da subito. A quei tempi le riprese dei film erano velocissime a causa dei budget ridotti e non si aveva la possibilità di rigirare una scena venuta male. Lui non stava molto bene, non era già molto in forze, così una volta gli chiesi se avesse voglia di ripetere insieme le battute prima della scena successiva. Ne fu molto felice e questo rafforzò il nostro legame. Aveva la capacità di rendere viva la battuta che pronunciava, aggiungendo le classiche pausa “alla John Wayne”. E poi aveva una grandissima etica professionale, non si risparmiava mai. Come Bette Davis ed Henry Fonda.

Cosa può raccontarci della sua esperienza professionale con Bette Davis?

Ho lavorato con Bette Davis nell’ultima parte della sua carriera. Aveva una parte in “Skyward”, un film tv di cui ero regista e anche produttore. Questa cosa non le andava a genio, così come il fatto che io avessi poco più di vent’anni. All’inizio mi chiamava sempre “Mister Howard”. Una volta, durante una discussione al telefono, le chiesi: “Mrs. Davis la prego, mi chiami Ron”. Ma lei mi rispose: “La chiamerò Mister Howard fin quando non avrò deciso se lei mi piace o no”, e mi riattaccò il telefono in faccia. Sapevo che il suo regista preferito era William Wyler, che indossava sempre giacca e cravatta sul set. Noi stavamo girando in Texas ad agosto, si moriva di caldo, ma io indossai comunque giacca e cravatta. Appena mi vide scoppiò a ridere, esclamando a gran voce: “Mi ha spaventato a morte! Ho visto un bambino che mi si avvicinava e mi sono chiesta cos’avesse da dirmi”. Ero in imbarazzo, presi delle pillole per lo stomaco per frenare la tensione: fu una giornata durissima. A un certo punto le diedi alcune indicazioni per la chiusura di una scena: lei non era convinta, ma accettò di provare secondo i miei suggerimenti e subito dopo mi diede ragione. Alla fine di quella giornata la salutai, complimentandomi per il suo lavoro. Lei allora mi rispose: “Ciao Ron, a domani!”, poi scoppiò in una tipica risata squillante alla Bette Davis e mi diede una sonora pacca sul sedere!

Nel 2013 ha diretto “Rush”: cosa l’ha affascinata in particolare della sfida fra James Hunt e Niki Lauda e in quale dei due si rivede di più?

Ho sempre ammirato chi ha una passione tale da puntare dritto al risultato, a qualunque costo. Ma personalmente mi rivedo più in Lauda.

E possiamo sapere chi è il James Hunt della sua carriera?

Non ho mai considerato l’arte come una gara. Mentre guardo certi film, provo al tempo stesso una profonda ammirazione e un’enorme invidia. Io, per esempio, non potrei mai fare quello di cui è capace Wes Anderson. Non ho un singolo James Hunt: ci sono tantissimi registi che riescono a entusiasmarmi, a farmi arrabbiare e a spronarmi nella stessa maniera in cui James Hunt stimolava Niki Lauda.

 

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Concetta Piro
Nata a Napoli, a otto anni si trasferisce in provincia di Gorizia dove si diletta di teatro. Torna nella sua amata città agli inizi del nuovo millennio e qui si diploma in informatica e comincia a scrivere - pensieri, racconti, per poi arrivare al primo romanzo, "Anime". Nel frattempo ha cambiato di nuovo città e scenario, trasferendosi nelle Marche. Oggi conduce per RadioSelfie.it "Lo chiamavano cinema", un approfondimento settimanale sulla settima arte, e scrive articoli sullo stesso tema.

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